In un momento di crisi come l’attuale, può sembrare paradossale parlare di crescita. Invece, a ben vedere, è proprio questo il momento; lo è per riflettere sulle ragioni dell’eccessiva fragilità delle imprese italiane davanti alla crisi, lo è per capire quali reazioni servirebbero per difendersi e ripartire.
Ora, qui ci si vuole soffermare su un dilemma di fondo, acuito in questo periodo dalla maggiore selettività posta dal sistema finanziario, ovvero se per finanziare la crescita, appunto, basti l’accesso al credito o non serva anche, e in che misura, il ricorso al capitale di rischio.
I termini del problema possono essere sintetizzati in quattro assunti di base e due corollari applicativi.
Il primo assunto consiste nella constatazione che il sistema delle PMI italiane è sostanzialmente sottocapitalizzato e, soprattutto, sovraesposto con forme di indebitamento nel breve termine; ciò rende più fragile la struttura finanziaria attuale del nostro sistema imprenditoriale.
Il secondo assunto consiste nella constatazione oggettiva che le proiezioni dell’applicazione degli accordi di Basilea 3 e delle determinazioni dell’EBA, richiedendo alle banche un maggior patrimonio di vigilanza, portano a stimare un probabile ulteriore irrigidimento delle decisioni di affidamento e di erogazione dei prestiti bancari, almeno per quei prenditori di debito considerati rischiosi.
Il terzo assunto consiste nell’esigenza di poter mantenere nel tempo, e saper misurare ex ante, la generazione di flussi di cassa sufficienti a garantire la sostenibilità dei rimborsi del debito ottenuto.
Il quarto assunto consiste nel sottolineare che l’immissione di capitali propri comporta sempre un innalzamento del costo medio ponderato del capitale, così da rendere necessario, affinché questo sia conveniente, che l’impresa consegua una maggior redditività nel tempo.
Il primo corollario, quasi ovvio, è che il ricorso a capitale di rischio, a seconda delle situazioni specifiche dell’impresa, può avvenire con apporti dei soci esistenti, di nuovi soci finanziatori, di strutture di “private equity” ovvero con il ricorso alla borsa (ad es. l’AIM, per le piccole e medie imprese). Ed è di tutta evidenza che al variare della tipologia dei soggetti citati, varieranno le aspettative e le modalità negoziali attuative e, non meno importante, la spinta ad una maggiore trasparenza informativa nei bilanci. Cosa, questa, che genera anche un effetto positivo nelle relazioni con le banche, talché una maggiore trasparenza di bilancio sarebbe auspicabile anche indipendentemente dal ricorso al capitale di rischio.
Il secondo corollario, infine, è conseguente a quanto sin qui detto e consiste nella considerazione che se da un lato è vero che non sempre l’immissione di nuovi capitali di rischio determina automaticamente un supporto alla crescita, poiché quest’ultima è conseguenza degli investimenti che verranno effettivamente realizzati in futuro e non della capitalizzazione in sé, dall’altro è sempre vero che una situazione di squilibrio delle fonti finanziarie, non coerente con la capacità di generazione di flussi di cassa, determina un irrisolvibile freno alla crescita ed una maggior rischiosità dell’impresa nel tempo.
* Docente Fondazione CUOA – Presidente Commissione nazionale di studio sulla finanza innovativa, Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili