Solo andando in Cina e confrontandosi con Cinesi e Italiani che vivono là da anni è possibile capire qualcosa del "nuovo mondo" e del "nuovo mercato". Si possono aver letto molti libri, visto molti documentari, ma la complessità della società e della cultura si può cogliere solo toccando con mano.
Una full immersion di una settimana in due Università (con insegnanti cinesi) in 6 aziende diverse (cinesi, italiane e americane) può essere sufficiente? Certamente no, ma già ti colpisce.
Molte credenze sulla Cina e i Cinesi vengono smentite. Ma come? Tutti i libri parlano di una società collettivista e tutti i manager che abbiamo incontrato dicono che prevale l'individualismo. E la capacità imprenditoriale? Possiamo imparare. E la tendenza a copiare? No, c'è tanta innovazione e anche qui dobbiamo imparare.
Delocalizzare in Cina, perché? Perché c'è un mercato grande, pronto e crescente. È un modo diverso di vedere la nostra crescita, attraverso l'internazionalizzazione del business.
Ecco alcune riflessioni dei nostri allievi:
“Un argomento mi sento di condividere e riguarda il comportamento/atteggiamento dei lavoratori cinesi. Il cinese è molto individualista? Pensa soltanto a se stesso? È pronto a fregarti e il suo dio è il denaro? Durante alcune lezioni di global management ci era stato detto invece che il popolo cinese è il più collettivista del mondo. Perché questa visione diametralmente opposta? Nel cercare di rispondermi ho chiesto anche l’opinione del prof. Alfonso Zhang della Zhejian University, che era presente quel giorno, e l’opinione che mi sono fatta è che il popolo cinese nasce come collettivista, questo dettato dall’importanza che la famiglia ha sempre avuto nei secoli nella società cinese. Però con la politica del figlio unico, a partire dagli anni ’70, la famiglia è diventata meno importante e quindi è prevalso il singolo, l’individuo. Nonostante ciò ritengo che se il cinese si sente parte di una famiglia, in questo caso l’azienda, possa in qualche modo riconoscere la sua figura, accettarla e rispettarla, soprattutto se, come detto, il made in Italy è percepito così positivamente.
Personalmente ho trovato l’aria respirata a Shanghai estremamente stimolante e spero di potermi confrontare con questa realtà durante il mio percorso lavorativo”. Stefania De Franceschi.
”Secondo la mia idea il workshop è stato un utile scambio di opinioni e idee e molto formativo per un motivo in particolare: gli interventi dei manager che si sono susseguiti hanno avuto approcci e metodi diversi, raccontando una realtà molto difficile da comprendere se non la si vive. Questo ha potuto innestare un dibattito sincero e franco. La Cina è un Paese con molte contraddizioni. Quindi mi sembra ovvio che come in tutti i casi di delocalizzazione, ci siano vantaggi e svantaggi. Credo che se imprese italiane delocalizzano in Cina evidentemente "il gioco vale la candela". Ma una domanda provocatoria: quale responsabilità sociale, nei confronti del nostro Paese, hanno le imprese italiane a delocalizzare in questo momento in cui si parla tanto di modi per sostenere la crescita … in Italia? Avanti tutta”. Giuseppe Amoruso.
“Durante gli incontri ci sono stati proposti molti spunti di riflessione, soprattutto su come crescere dal punto di vista professionale, sulla rapidità con cui la Cina e il mondo intero stanno evolvendo e sulla necessità di metterci in gioco al 200%. Per quanto riguarda Shanghai sono rimasto affascinato dall'area di Pudong, ma penso di non essere ancora riuscito a metabolizzare i contrasti e i paradossi che la caratterizzano. Spero quindi di tornarci in futuro per poterla conoscere in modo più approfondito”. Alessandro Sanfelici.
* Direttore scientifico Master in Management dell’Innovazione