Luca Vignaga *
Da più parti ci sentiamo dire che il lavoro non è più quello di una volta. E se ci guardiamo indietro capiamo quanto in pochi anni è cambiato. Due sono le grandi forze che stanno “spaccando” le strade fin qui percorse. Da una parte la tecnologia, che oggi si appresta ad entrare in una nuova fase (l’internet delle cose, le stampanti 3D …), dall’altro un mondo globale dove il campo da gioco non è più limitato ad un preciso perimetro, ma è praticamente sconfinato. Una recente ricerca dell’Università di Oxford ha fissato al 47% il numero dei lavori sostituibili dalle macchine. Questo significa che io che ho scritto o tu che stai leggendo questo articolo, saremo spazzati via da un robot (ad esempio, nella selezione del personale vi sono esperimenti già collaudati per sostituire l’intervista “umana” con un software che valuta sia le skills soft che hard). Se, quindi, il cambiamento è già parte del nostro essere, e lo sarà ancor di più , peccato che il nostro cervello sia abituato a muoversi cercando costantemente la stabilità, la chiarezza, la coerenza. Per fare questo la scuola “obbligatoria”, sin dalla primaria, deve aprirsi non solo a gestire le nuove tecnologie, ma deve offrire gli strumenti adeguati a spingere la persona alla creazione di un pensiero critico e creativo (la “maestra” Montessori qualcosa ha fatto su questa linea, basta guardare a questa esperienza, ancor oggi, più valutata all’estero che in Italia). La formazione in azienda deve diventare costante e obbligatoria, come quella prevista per la sicurezza sui luoghi di lavoro. Non si capisce perché è prevista quella per difenderci dal rischio di ridurre la nostra vista davanti ad un videoterminale e contemporaneamente poche aziende si attrezzino per allenare la professionalità delle proprie risorse a fronte di un fortissimo rischio di usura e deterioramento. Come fare per non essere travolti e subire supinamente scelte che altrimenti qualcun altro prenderà per noi?
Tre spazi di movimento: competenze, talenti e passioni.
1) Guardare alle proprie competenze come al più grande capitale che possediamo. È la nostra cassetta degli attrezzi, che ci permette di essere dei problem solver evoluti. Il capitale, per sua definizione, va alla ricerca di una adeguata remunerazione. La remunerazione delle competenze non sono i soldi, è la possibilità di poter decidere se stare in una azienda o cambiare azienda. È l’opportunità di essere valutati dal mercato come dei contributori al successo di un’azienda, non come un peso
2) Si parla molto di talenti. In un recente articolo apparso su Forbes, Liz Ryan (per chi si occupa di HR merita di essere letto) ha parlato di buco nero dei talenti, in particolare sulle politiche di reclutamento e sviluppo delle risorse umane in azienda. La verità è che i talenti, intesi come persone che hanno un quid in più, esistono. Ma la focalizzazione aziendale su questo tema è pericolosa. Oggi il rischio nel fare impresa deve essere, equamente, condiviso, non è più in mano a poche persone. Per essere condiviso, la nostra visione deve essere larga e profonda, verticale ed orizzontale. Nella gestione di un team o di un’intera azienda, scartiamo questa prospettiva dei pochi adepti e concentriamoci sui talenti che ognuno di noi ha. Questo, però, è un lavoro che principalmente non possiamo demandare ad altri, lo dobbiamo svolgere principalmente noi nel riconoscerli, praticarli e svilupparli. Come? Indaghiamo su chi siamo, perché alcune cose le sappiamo fare meglio degli altri, quali sono i fili conduttori di questa nostra specialità
3) Negli anni 60’ Pupi Avati, che si stava dedicando anima e corpo al clarinetto, entrando in una osteria, vide suonare Lucio Dalla. Da quel momento capì che quello che stava facendo non poteva che essere una passione. Passione e talento sono due cose diverse. Sono però il complemento l’uno dell’altro. Coltivare le nostre passioni significa poter fare qualcosa che ci appaga pienamente, senza essere costretti a misurarci con una performance. Le passioni sono un regalo che la natura ci dà, i talenti sono moneta sonante che dobbiamo sfruttare. Su questo la parabola evangelica è chiara. Certo che vivere senza passioni, vuol dire vivere una vita piatta e rinsecchita e questo rischia di non far arrivare il giusto ossigeno ai nostri talenti.
C.T.P. Competenze, Talenti e Passioni: tre precisi indirizzi per orientare consapevolmente la nostra mente; tre cose da alimentare e da far intrecciare per una vita che affronta l’incertezza come l’esperto skipper affronta l’oceano.
*HR Director Marzotto Group e Docente JobLeader Human Resources Management