di Corrado Giacomini *
Come è noto, alla crisi interna le imprese italiane hanno risposto aumentando lo sforzo di penetrazione sui mercati esteri. Lo stesso ha fatto l’industria alimentare, tanto che negli ultimi due anni il segno della bilancia commerciale di questo comparto è diventato positivo e continua a crescere, salvo un lieve rallentamento negli ultimi mesi. Questi risultati sono tanto più stupefacenti se si considera che circa il 90% delle nostre imprese ha meno di 9 addetti, un numero medio che supera di poco i 6, ma scende a meno di 5 nel Sud e nelle isole. Quelle che esportano di più sono le medie e grandi imprese (circa il 2% ha più di 50 addetti), ma è sorprendente che molte imprese familiari, caratteristica del settore, esportano come dimostrano due comparti molto importanti del Made in Italy : il vino e l’olio.
In un mercato globalizzato, dove la competizione è particolarmente accesa e in presenza del dominio della grande distribuzione nei nostri primi quattro mercati di esportazione (Germania, Francia, USA, Inghilterra), non si può pensare che i successi ottenuti dipendano solo dallo “stellone” italiano, soprattutto se il successo continua. Vuol dire che i nostri imprenditori hanno aggiunto al coraggio, con cui hanno sempre affrontato i mercati, una maggiore preparazione e formazione manageriale.
Purtroppo, recenti dati dell’ISFOL (Ente Pubblico di ricerca sulle politiche di formazione) sembrerebbero dare una risposta negativa, se nel 2012 solo il 6,6% delle aziende italiane è stata attiva nella formazione contro percentuali più alte negli altri Paesi Europei (fino al 31,6% in Danimarca). Ma il dato più interessante riguarda le ricadute che avrebbe avuto la formazione nelle aziende che l’hanno introdotta: il 38,8% ha realizzato innovazioni di prodotto, mentre solo il 19,7% quelle che non l’hanno fatta. Sempre l’ISFOL ha accertato che le imprese, che hanno fatto formazione, hanno sviluppato innovazioni di processo nel 25,3% dei casi, innovazioni organizzative nel 36% e innovazioni di marketing nel 22%.
L’indagine ISFOL riguarda tutta l’industria italiana, tuttavia la dimensione polverizzata del settore alimentare e le caratteristiche prevalentemente familiari delle imprese accentuano l’importanza della formazione per un settore che deve necessariamente cercare di proiettarsi verso l’estero, dove la sfida alla produzione Made in Italy è particolarmente aggressiva se si pensa che le contraffazioni dei nostri marchi sono stimate superiori al miliardo di euro e il cosiddetto italian sounding, vale a dire i prodotti che nelle etichette aggiungono una certa immagine italiana, pare che raggiunga la cifra esagerata di 60 miliardi di euro. La produzione alimentare italiana ha di fronte un grande mercato, ma bisogna essere capaci di vincere la competizione e non basta il richiamo del “Made in Italy”.
* Professore Ordinario di Economia Agroalimentare, Università degli Studi di Parma e Referente scientifico corso CUOA Management delle Aziende Agroalimentari