a cura di Michele Ugolini *
Capire il mercato italiano del vino e le dinamiche che lo avvolgono non è cosa di facile immediatezza, soprattutto per i continui e violenti cambiamenti ai quali, esso, ci ha abituato. Volendolo esaminare in un arco temporale medio, una data che ci pare interessante come partenza periodica è il 15 settembre 2008, quando la banca d’affari americana Lehman Brothers fece ricorso al CHAPTER 11, travolgendo tutto e tutti. Anche il mercato del vino mondiale ebbe una battuta d’arresto o, se preferiamo, una pausa di riflessione, azzerando d’un sol colpo gli scambi tra i vari Paesi. Non era difficile, allora, vedere aziende italiane, fortemente esposte sui mercati esteri, riversarsi sul mercato domestico nel tentativo di recuperare quote perse altrove. Questa piccola lezione (che pochi impararono) insegnò a chi aveva orecchi per intendere come l’approccio ai mercati non potesse avere connotati di superficialità e impreparazione e come lo stesso approccio dovesse seguire la regola elementare del mix canale/mercato.
A sei anni di distanza, le aziende italiane sono nuovamente sovraesposte sul versante estero. Molti sono i motivi che hanno determinato questa scelta, come molte sono le argomentazioni che i nostri vignerons “distribuiscono” per giustificare la scelta, così come molti sono i pensieri sardonici di chi ascolta.
In un’Italia dove da alcuni anni assistiamo alla storicizzazione della parola “crisi”, a cui segue il non meno noto sofisma “crisi di consumi”, pochi hanno avuto il coraggio di dire che più che crisi di mercato siamo di fronte ad una “crisi di cervelli”, fatta di uomini impreparati culturalmente, incapaci di gestire, fronteggiandola, qualsiasi variazione percentuale minima dei mercati.
La crisi dei consumi nel mercato interno è figlia, soprattutto, della dimenticanza dei nostri produttori che, in preda a sogni cinesi, russi e brasiliani, hanno abbandonato i consumatori maturi e non hanno speso, non solo energie mentali, ma anche il “becco di un quattrino” per attirare i nuovi consumatori, i giovani: attratti da un bere “diverso”, per far capir loro quanto sia straordinaria la nostra ricchezza eno-turistico-gastronomica.
Non si è capito che il consumatore giovane dopo 20 anni diventa maturo ed è, quindi, fondamentale procacciarsi nuovi adepti. Chi non “mette in moto” questa ruota si ritrova con consumatori maturi, che diventano con il passare degli anni vecchi e si priva del ricambio generazionale. Un percorso, questo, non praticato da molti consorzi e aziende che, beandosi dei successi ottenuti in 20 anni di fatiche, non hanno saputo coinvolgere e attrarre potenziali nuovi wine lovers. Gli unici, sia chiaro, in grado di mantenere vivo il brand. Ci si è lasciati andare senza reagire, abbandonandosi ad analisi pecorecce, che nulla hanno a che fare con un serio modo di conduzione aziendale. Il fatto stesso che molti imprenditori abbiano investito nel vino come attività “no core” e, successivamente, abbiano ceduto il testimone alle nuove generazioni, se da un lato può far piacere, perché è nel ricambio “giovane” che sta il futuro, pone comunque l’accento su un altro “vizio” dell’Italia enoica: il vino come ambiente glamour, più moda che sostanza, più Folies Bergere che Ennio Morricone, settore femminile e, quindi, facile da gestire, figlio privilegiato dei social network, dove bastano alcune foto tra amici con la bottiglia aziendale in primo piano per creare marca e nuovi consumi.
Occorre anche dire che, per molti players, la scelta estera è stata determinata dalla cattiva consuetudine dei clienti italiani (bar e ristoranti in primis) delle cantine di assolvere ai loro debiti a lungo termine, mettendo in pericolo l’equilibrio finanziario delle stesse e obbligandole a cercare partner più affidabili. E se una decina di anni fa il numero dei “cattivi pagatori” era appannaggio per lo più del Sud Italia, oggi questo gap si è sensibilmente accorciato, rendendo il nostro Paese, per quanto riguarda questa tematica, estremamente omogeneo.
Nella confusione che regna nell’italico stivale, dove prevale un certo “nanismo”, caratteristica che non è legata agli ettari posseduti (la Borgogna insegna!), ma ad un incedere incerto e approssimativo, la via della resurrezione appare ardua, ma non impossibile e si può sintetizzare in alcuni punti che andremo ad esaminare.
Dopo lo sboom degli enologi griffati degli anni ‘80 e ‘90, ai quali pesa come un macigno la responsabilità di non aver saputo valorizzare terreno e vitigno, proponendo ricette facili e standardizzate, la “nouvelle vague” non può che passare da un ritorno ragionato al passato: lo studio dei vitigni, dei terreni, delle forme di allevamento assieme al recupero delle “vecchie” varietà ampelografiche e ad un uso razionale del legno (le chips lasciamole agli americani!) sono attività che richiedono molta fatica, ma che appaiono imprescindibili se vogliamo che i nostri vini abbiano personalità e non siano la “fotocopia di”.
Così come appare ineludibile il ritorno all’ovile nelle proprie denominazioni di competenza di tutti di Super Tuscans, Super Whites, Super Blend (ho assaggiato un vino in cui erano presenti contemporaneamente 2 Cabernet, Merlot, Gamay e Sangiovese) e i Super Super. Purché le stesse denominazioni non solo effettuino i doverosi controlli, ma si dotino di disciplinari moderni e non di comodo. Così come è doveroso discutere dell’abuso di vini I.G.T. a cui stiamo assistendo: un boomerang che rischia di mandare in confusione il nostro consumatore già abbondantemente confuso.
Con l’innalzamento della qualità o della banalità media, il mercato è pronto a riconoscere un ruolo di primo piano a quelle aziende che faranno del rapporto qualità/prezzo una caratteristica identitaria. E il rapporto qualità/prezzo non è mai stato sinonimo di prezzo basso e nulla ha a che vedere con i prezzi stracciati praticati da alcuni produttori, che rischiano di affossare alcune D.O.C. del nuovo miracolo italiano come il prosecco.
E, per finire, la gestione imprenditoriale. Proprio perché imprenditoriale, deve essere affidata ad uomini sapienti, che realmente conoscono il mercato italiano, perché lo frequentano, in grado di attingere ecletticamente a teorie economiche innovative e di comprendere gli indicatori di bilancio. Partendo da Vision e Mission, valori essenziali per impostare un piano strategico di medio-lungo periodo. Un periodo di tempo che va dai 5 ai 10 anni, dove calibrare investimenti, che portino ad esprimere il proprio potenziale: ottenere risultati altisonanti in breve tempo è praticamente impossibile.
Proprio dalla conoscenza di SWOT Analysis, Blu Ocean, Tulipano Nero, Black Swan, Contrarian Analysis, per chi gradisce, KEYNES (Teoria del Consumo e del Reddito) e la Teoria del Portafoglio di Markowitz, che l’azienda vinicola si avvia in un percorso virtuoso, dove le turbolenze interne o esterne del mercato sono affrontate con la giusta consapevolezza, con strumenti adeguati e senza quel “piangersi addosso” che i più sembrano prediligere per giustificare i propri fallimenti personali.
* Responsabile Vendite Italia Cantina Colli Vicentini, ex allievo Corso Gestione delle Aziende Vitivinicole