a cura di Diego Campagnolo *
Quando si parla di competitività delle imprese italiane c’è una scelta che mette tutti d’accordo: è necessario che le imprese perseguano strategie di internazionalizzazione. Discutere di internazionalizzazione senza guardare oltre l’indicazione generica di aprirsi ai mercati internazionali si accompagna, però, al rischio concreto di un eccesso di semplificazione. Non solo, in passato molte piccole (e medie) imprese hanno iniziato percorsi di crescita internazionale sporadici o “trainati” dallo sviluppo di (alcuni) clienti di riferimento. Il tempo di questo tipo di approcci pare esaurito.
I racconti che manager e imprenditori fanno (più spesso in privato) sui “passi falsi” che hanno compiuto prima di avere successo nei mercati internazionali portano a riflettere sui fattori critici del processo di internazionalizzazione.
La scelta di dove (in quali Paesi), come (attraverso quali modalità d’ingresso) e in quali tempi (quando) internazionalizzare occupa la gran parte dei ragionamenti sul tema della crescita internazionale. La risposta a queste domande, infatti, è tutt’altro che semplice e spesso porta l’impresa a “guardare” fuori dalla propria organizzazione per cercare le risposte giuste. Questo approccio è sicuramente condivisibile, ma non è sufficiente. Lo sviluppo internazionale è un processo il cui esito dipende dalla capacità dell’impresa di accompagnare all’analisi esterna un’attenta analisi interna.
Tassi di crescita sostenuti, buon livello di infrastrutture e competenze nei settori complementari, similarità culturali con il Paese di origine sono aspetti importanti che tuttavia non sono sufficienti per valutare l’ingresso in un Paese estero. L’impresa si deve chiedere se ha una proposta di valore appropriata per il mercato in oggetto e quali risorse (tangibili, intangibili e umane) può dedicare allo sviluppo internazionale in tutte le sue fasi.
Solo la corretta combinazione di queste analisi può incrementare le probabilità di successo, fin dall’inizio e in maniera duratura, di un processo di internazionalizzazione. È facile intuire, infatti, che analisi parziali espongono maggiormente l’impresa a risultati, nella migliore delle ipotesi, altalenanti.
Il passaggio seguente è quello organizzativo. La struttura organizzativa dell’impresa, a seguito dello sviluppo internazionale, non può rimanere inalterata. Se pensiamo per esempio che la proposta di valore per un Paese straniero può essere diversa da quella che si propone nel Paese di origine o che il successo internazionale dipende dalla reattività dell’impresa nel rispondere ai bisogni del mercato o dall’introduzione di prodotti nuovi, ne consegue che la struttura metterà in luce esigenze crescenti di integrazione tra funzioni o unità organizzative . L’impresa dovrà identificare il modo migliore per assecondare il fabbisogno di coordinamento con organi temporanei (come area o account manager), fino ad arrivare a un ridisegno dei principi di progettazione della struttura organizzativa (per esempio da funzionale a divisionale).
Se la struttura sarà in grado di favorire processi di apprendimento su scala internazionale attraverso un’adeguata circolazione delle conoscenze e delle competenze che si formano a livello locale, allora sarà anche in grado di innescare processi di internazionalizzazione efficaci nel medio termine.
* Direttore scientifico International Training Map della Fondazione CUOA e Ricercatore di Organizzazione Aziendale presso il Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali dell’Università degli Studi di Padova