a cura di Emanuela Zaltron *
Spesso, in questo periodo, si sente parlare di necessità di perseguire il miglioramento continuo, il cambiamento in ottica di ottimizzazione dei processi e di riduzione degli sprechi, o della necessità di ricondursi solo a ciò che è valore per il cliente, ossia all’essenza del buon senso condotto da standard codificati e di ciò che è veramente utile e logico.
Molte aziende, oggi, stanno facendo i conti con la necessità di ristrutturarsi completamente e rifocalizzare la strategia interna per renderla maggiormente rispondente alle richieste del mercato.
Ma perché ci si trova a curare piuttosto che a prevenire?
Darwin ci parla di evoluzione della specie e di selezione naturale della stessa: “La teoria della selezione naturale prevede che nel corso delle generazioni successive al manifestarsi della mutazione, vengano favorite (‘selezionate’) quelle mutazioni che portano gli individui ad avere caratteristiche più vantaggiose in date condizioni ambientali, determinandone, cioè, un vantaggio adattativo (migliore adattamento) in termini di sopravvivenza e riproduzione.
Conseguenze della selezione naturale sono adattamento e speciazione.
E se volessimo, con audacia, parafrasare Darwin e sostituire la visione evolutiva o biologica individuale con una visione organizzativa? La selezione naturale delle organizzazioni è alla base dei processi di adattamento, quale facoltà delle aziende di mutare i propri processi, consentendo di adattarsi alle condizioni dell’ambiente nel quale vivono e la speciazione è il processo evolutivo grazie al quale si formano nuove “specie”. Il fenomeno opposto è l’estinzione ed è ben noto quante aziende, in questo lungo periodo di crisi, si siano trovate di fronte alla necessità di chiudere.
Ma perché il concetto di adattamento è spesso abbinato ad un’accezione negativa, quasi alla stregua di un atteggiamento di reazione di fronte ad una situazione che si subisce? In fin dei conti l’adattamento può aumentare l’efficienza nel procurarsi o utilizzare le risorse fondamentali (umane e produttive), permettere di sopportare determinate condizioni esterne complesse (sistema Italia), o di aumentare la capacità di difendersi (mercato). E quali risorse può avere un’azienda per saper rispondere a una naturale e inevitabile evoluzione del contesto a cui appartiene?
Evoluzione che, per altro, storicamente e ciclicamente, ci ha dimostrato dei momenti di rottura drammatici, eppur determinanti per rilanciare qualcosa di nuovo e preziosi per fare un passo avanti.
Assumiamo allora che sia cruciale saper migliorare e, nello stesso tempo, saper investire su uno sviluppo di lungo periodo per una mentalità organizzativa pronta ad agire di fronte a condizioni di incertezza e ambiguità, e capace di intravedere in ogni situazione l’opportunità di esprimere la forza determinante del proprio capitale professionale, intellettuale e umano.
Ma si può pianificare la capacità di adattamento?
Il Toyota Kata ci insegna che si può: Mike Rother, ricercatore e formatore, nonché autore del libro che porta questo nome, ha studiato e osservato a lungo le pratiche di management di Toyota, ponendo l’attenzione a come questa azienda automobilistica guida e gestisce tutt’oggi le persone, ossia agli schemi di comportamento che stanno alla base del suo successo mondiale.
Ha introdotto con questo termine, kata, di origine giapponese, il concetto di routine manageriale.
Due, in particolare, sono le routine codificate dal sistema giapponese: il kata del miglioramento e il kata del coaching. Il primo kata guida comportamenti finalizzati a prosperare attraverso un miglioramento, quotidiano e continuo, fatto di procedure e routine sistematiche al servizio delle capacità umane (espresse e inespresse); il secondo kata, invece, assolve al compito di supportare e sostenere le persone, attraverso un approccio fatto di domande e non di soluzioni, nell’allenare la capacità di assumere e agire nei propri comportamenti in azienda una mentalità che porta tutti i giorni a chiedersi: dove si è, dove si vuole andare, quali ostacoli impediscono di aver già raggiunto lo stato desiderato?
Certo, così detto il lavoro hard si concentra paradossalmente sulla parte soft, ossia quella più sfuggente e imprevedibile: i pensieri e i comportamenti delle persone che lavorano nelle nostre aziende.
Entrambi i kata possono essere alla portata di tutte le organizzazioni, ma attuabili solo da quelle aziende che si trovano nella consapevole volontà di rendere e legittimare, a pieno diritto, il miglioramento (analizzato, pensato, ideato prima di essere agito!) come parte dell’attività quotidiana delle proprie risorse e di strutturare intenzionalmente un percorso per sviluppare la capacità di affrontare situazioni mutevoli e imprevedibili, allenandosi ad agire con metodo di fronte alle necessità di adattamento che il nostro contesto ci richiede.
* HR Manager and Coach, partecipante percorso Toyota Kata di CUOA Business School