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Jobs Act e contratto a tutele crescenti: servirà davvero a rilanciare l’occupazione a tempo indeterminato?

A cura di Simone Baghin*

Il Consiglio dei Ministri del 20 febbraio scorso ha emanato il primo Decreto Legislativo di attuazione della Legge Delega 183/2014 (più nota come Jobs Act), che contiene, tra le altre, la delega a “promuovere, in coerenza con le indicazioni europee, il contratto a tempo indeterminato come forma comune di contratto di lavoro rendendolo più conveniente rispetto agli altri tipi di contratto in termini di oneri diretti e indiretti”.
Si tratta del decreto che andrà a introdurre, dal prossimo 1° marzo, il tanto atteso contratto a tutele crescenti, che dovrebbe, nelle intenzioni dell’esecutivo, rilanciare il contratto a tempo indeterminato come tipologia contrattuale comune e privilegiata per l’accesso nel mondo del lavoro.
Una premessa è d’obbligo: non si tratta di un nuovo tipo di contratto a tempo indeterminato, ma di un ordinario contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (al pari di quello fino ad oggi conosciuto), che prevede nel caso di illegittimità del licenziamento, in via quasi esclusiva, il risarcimento del danno al lavoratore (certo e definito) e, solo in via marginale, la reintegra nel posto di lavoro.
Si tratta di un grande passo avanti per rendere il diritto del lavoro quello che dovrebbe essere: un Diritto certo; certo nelle sue conseguenze in caso di illegittimità, certo nell’ammontare dell’eventuale risarcimento (quantum), certo nel campo di applicazione.
Esaminiamo qui di seguito, gli aspetti principali.
Il nuovo regime si applicherà per tutti quei lavoratori (operai, impiegati, quadri) assunti a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015; per i rapporti di lavoro già in essere, nulla cambierà rispetto alla normativa attuale.
Il Decreto prevede un regime sanzionatorio diversificato a seconda del motivo per cui viene dichiarato illegittimo il licenziamento; la reintegra sarà considerata un’eccezione al regime generale dell’indennizzo per i licenziamenti illegittimi, che scatta solo se l’accusa si manifesta come radicalmente infondata o nel caso di licenziamento discriminatorio o nullo.
In tutti gli altri casi di licenziamento illegittimo, il rapporto rimane estinto e il Giudice condanna il datore di lavoro ad un risarcimento al lavoratore di un’indennità certa e definita per Legge, sulla base dell’anzianità di servizio, con un minimo e un massimo.
Una delle maggiori novità introdotte è quella dell’offerta di conciliazione.
I dati statistici ci dicono oggi che, con le regole attuali, il 92% dei lavoratori licenziati opta per il risarcimento del danno e non per la reintegra.
Ecco perché il Legislatore ha voluto prevedere un sistema in grado di ridurre il più possibile il numero dei contenziosi, snellire i processi e, soprattutto, rendere economicamente conveniente la risoluzione del rapporto di lavoro tra le parti.
Viene infatti prevista la possibilità di conciliare, in opportune sedi, il licenziamento intimato dal datore di lavoro.
Se la conciliazione ha esito positivo, il licenziamento si intende concluso e il lavoratore avrà diritto a un importo, certo e definito sulla base dell’anzianità di servizio, che non costituirà per lui reddito; viceversa, se non accetta, avrà la possibilità di impugnare il licenziamento entro 60 giorni.
In conclusione, anche se ci vorrà del tempo affinché le nuove regole diventino uniche, ritengo che le novità introdotte saranno di rilevanza strategica per le nostre imprese, che saranno in grado di valutare, a priori e in maniera certa, quali saranno i possibili rischi, ma soprattutto costi di un eventuale risoluzione del rapporto di lavoro e conseguentemente la strategia da adottare.

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*Consulente del lavoro, docente CUOA, Faculty MBA Imprenditori