di Paolo Gubitta* e Alessandra Tognazzo**
Correva il 1975, quando Giovanni Costa sottolineava il rischio che una progettazione formativa avulsa dalla corretta valutazione della struttura del sistema economico potesse generare una vera e propria diseducazione manageriale. Correva il 1984, quando Daniele Boldizzoni portava all’attenzione della comunità scientifica il tema spinoso della capacità della formazione di incidere sui processi reali e introduceva il concetto di formazione apparente.
In questi quarant’anni l’executive education in Italia ha compiuto passi da gigante. Da un lato, ha pienamente recuperato il gap rispetto ai Paesi di matrice anglosassone che per primi svilupparono e diffusero in tutto il mondo la cultura della formazione continua per le figure direttive. Dall’altro ha trovato una via originale alla formazione manageriale, capace di tener conto delle specifiche esigenze delle imprese piccole, medie e grandi e di metabolizzare la rivoluzione digitale, come emerge ne Il maestro e la rete, il volume collettaneo curato da Giovanni Costa ed Enzo Rullani nel 1999.
Nell’ultimo decennio, i cambiamenti nell’economia, nelle istituzioni e nei mercati hanno lanciato nuove sfide all’executive education, che ASFOR ha colto costituendo diversi gruppi di lavoro, tra cui uno che dall’autunno del 2007 lavora sul tema della Formazione Manageriale e Imprenditoriale nelle PMI.
Il gruppo ha realizzato una ricerca con il fine di approfondire la formazione richiesta dagli imprenditori e dai manager e di capire se la formazione delle figure di vertice impatti sulle strategie e sulle performance delle imprese e quindi se possa qualificarsi come formazione utile.
Tra i vari risultati emersi dalla ricerca, c’è un fatto di particolare interesse pratico.
Coloro che hanno frequentato iniziative di executive education si sentono più preparati e hanno una maggiore consapevolezza delle proprie competenze (cioè di quello che sanno fare e, soprattutto, di quello che non sanno fare).
Tale percezione non è priva di effetti pratici, perché il fatto di considerarsi più o meno capaci di fare determinate cose impatta sulle strategie e sulla gestione quotidiana. Detto in altri termini, siamo di fronte a persone che sanno ponderare meglio le loro decisioni e quindi agiscono con maggiore cognizione di causa.
In più, la ricerca ha dimostrato che le imprese guidate da queste persone tendono ad essere:
1) più portate a dire la propria sul mercato, immaginando azioni e strategie nuove capaci anche di anticipare i concorrenti;
2) più propense a incamminarsi in sentieri di investimenti e progetti che sono magari più rischiosi, ma che promettono risultati migliori;
3) più orientate a prendere di petto il mercato, anche con azioni che lo anticipano e in qualche modo sperano di influenzarlo.
Come dire che nella formazione imprenditoriale c’è poco fumo e tanto arrosto.
* Paolo Gubitta, direttore scientifico Area Imprenditorialità CUOA Business School e professore ordinario di Organizzazione aziendale all’Università di Padova
** Alessandra Tognazzo, assegnista di ricerca del Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali all’Università di Padova, è junior researcher della ricerca ASFOR Formazione manageriale e imprenditoriale nelle PMI