di Martina Ziggiotti*
“Chi fa da sé fa per tre” è un modo di dire che nel nostro territorio ha un retaggio ben radicato, il “faso tuto mi” dei Veneti è conosciuto in tutta la penisola e sicuramente anche oltre. Verrebbe però da aggiungere che “chi fa da sé, fatica anche per tre”, perché in realtà non investe tempo, nella creazione di un team. Dal dialetto passiamo all’inglese, ma non è un salto poi così azzardato oggigiorno. Gli imprenditori illuminati, come si usa spesso definirli, hanno iniziato a comprendere che coinvolgere il proprio staff, condividere obiettivi e sviluppare insieme le strategie, porta ad un prezioso incremento di forze, di idee e inevitabilmente dei tanto attesi risultati.
Il vero team building, però, ha il suo plus valore proprio nell’aspetto più complesso e problematico, cioè le diversità personali e professionali dei membri che ne fanno parte. Se in questo la teoria è prodiga di indicazioni, come ascolto sincero e disponibilità, coerenza, autocritica onesta e spirito di collaborazione, la pratica è tutt’altra cosa.
In un’azienda con una storia e, quindi, un metodo di lavoro impostato nel tempo, il cambiamento è una proposta vista con occhio torvo, soprattutto da quei lavoratori che trovano i loro punti di riferimento nella routine quotidiana. La difficoltà, comunque, non rende il processo impossibile, solo più impegnativo per chi ha il compito di trovare la giusta via, che sta nel mezzo tra le ambizioni aziendali e le caratteristiche personali. Infatti, il vero aspetto cruciale del team building, è la scelta dei componenti, come in ogni squadra che si rispetti: ogni membro del gruppo deve essere adatto al suo ruolo, senza perdere la visione complessiva del gioco.
Lo scenario è ancora più articolato quando, come nel mio caso, l’obiettivo è creare da zero una sede estera, dove aldilà delle molteplici personalità, sono da integrare culture e abitudini molto diverse e va superata l’ancora radicata disuguaglianza tra uomo e donna, il tutto in un contesto socio-culturale che è abbastanza ottimistico definire “in via di sviluppo”. Parlo del Ghana, Africa, dove è difficile accettare una giovane donna bianca manager. Ma anche lì, in un ambiente gravoso, tutto parte dalle relazioni tra le persone, dal guadagnarsi la stima con impegno e autorevolezza, dall’assegnare i giusti ruoli con le giuste motivazioni.
Ritornando però nell’impresa veneta, il tutto si traduce con compiti ben definiti e responsabilità chiare, che non possono però esulare da una buona comunicazione di confronto, per far emergere subito le problematiche e per trovare, altrettanto tempestivamente, proposte di soluzione. Quest’ultimo punto, che sembra quasi ovvio, porta in sé invece un nodo critico, che si scioglie solo con la fiducia nel gruppo e la visione comune, al fine di trovare la risposta più adatta a ogni difficoltà. Abitualmente, invece, c’è l’idea che chi sollevi un problema ne abbia la responsabilità diretta e l’onere solitario di risolverlo. Il gioco di squadra, al contrario, valorizza ogni componente, gratificando ognuno per il proprio contributo ed è forse questa la vera chiave di lettura per offrire motivazione e obiettivi, partendo dal potenziale personale per arrivare al futuro aziendale.
*Allieva MBA part time International Program 10ª edizione in collaborazione con University of Michigan – Dearborn (USA)_2016/2017, Export Manager, Diquigiovanni S.r.l.
Concordo appieno ogni aspetto delle considerazioni esposte.
Mi permetto di aggiungere,in linea molto generale,che il cambiamento diventa indispensabile per “sopravvivere”…. chi non si adatta ed evolve,muore……