ImpresealCUOA, 15 gennaio 2018
di Paolo Gubitta*
In un Paese moderno e industrializzato come il nostro, il rilancio imprenditoriale è un tema di qualità più che di quantità. È per questa ragione che, invece di contare quanti imprenditori ci sono, bisognerebbe approfondire di più per capire chi sono, cosa fanno e cosa sanno fare questi imprenditori. La riflessione di Paolo Gubitta, direttore scientifico Area Imprenditorialità CUOA Business School, ci spiega la ragione.
In Italia, il dibattito sull’imprenditorialità è sempre acceso, vuoi perché il nostro Paese sta perdendo alcuni pezzi importanti del proprio patrimonio imprenditoriale, vuoi perché siamo abituati a pensare che più imprenditorialità significa più ricchezza.
Ogni variazione anche minima nel numero di imprese viene letta come un evento epocale. Se lo stock delle imprese attive cala, si dice che è l’ennesimo segnale del nostro inesorabile declino, mentre se cresce si lodano le italiche doti di fiducia in se stessi e la capacità di costruirsi un futuro senza aspettare che la soluzione cali dall’alto. Se tra i flussi di nuovi imprenditori diminuisce il numero degli under 30, si bolla il fatto come conferma che l’Italia è davvero diventata il Paese dei bamboccioni. Se non c’è la giusta quota di imprenditorialità femminile, si ribadisce l’incapacità di valorizzare il talento di tutti.
È un bene che si discuta del fenomeno imprenditoriale, ma sarebbe meglio riflettere sui modi per misurare la buona imprenditorialità, piuttosto che limitarsi a contare il numero di imprese (nate o morte, cedute o comprate, grandi o piccole e così via).
Tutte queste affermazioni hanno un fondamento di verità, ma dicono veramente poco sul fenomeno imprenditoriale.
È vero che il numero di imprese attive (stock) è un buon indicatore dello stato di salute di un’economia: chi fonda nuove imprese (flussi) libera conoscenze e competenze che altrimenti rimangono inespresse in qualche lavoro che non piace o nella solitudine dell’inoccupazione, aumentando il livello di competizione e spingendo tutti gli altri a migliorare prodotti e servizi e a innovarsi. Ciò ha un impatto positivo sulla crescita economica. Da un certo punto in poi, si riduce la propensione a creare nuove imprese, ma si consolidano quelle esistenti: è questo dà un ulteriore impulso alla crescita economica.
Stando così le cose, non è scontato che l’aumento del numero di imprese sia sempre da salutare come un fatto positivo.
Avviare una nuova impresa vuol dire affrontare l’incertezza e quindi sostenere un rischio.
In alcuni casi, la scelta imprenditoriale è residuale e deriva dal non avere altre offerte di impiego o alternative migliori o soddisfacenti. Si tratta di imprenditori poco propensi alla pianificazione e le cui imprese in genere non sono molto performanti o non operano in settori innovativi. In altri casi, la decisione di fare l’imprenditore ha lo scopo di cogliere una opportunità, che si scorge o addirittura ci si inventa, tanto che certi studiosi hanno definito alcuni di essi come audaci visionari, spinti da una fiducia (a volte sconfinata) nelle proprie idee.
Tra le imprese nate per cogliere un’opportunità, invece, sono di particolare interesse quelle fondate su qualche soluzione innovativa (per la tecnologia, o per la soluzione di mercato o per qualche altra ragione). In questi casi, è più evidente che per tali iniziative non ha senso contare il numero di imprese, perché a volte basta che una sola di essere diventi un unicorno (in Silicon Valley, con questo termine si indicano sono le startup specializzate nelle tecnologie avanzate, non quotate in Borsa, con una valorizzazione superiore a 1 miliardo di dollari) per cambiare interi sistemi. Ecco perché esse vanno pesate e il peso dipende dalla qualità del capitale umano e relazionale, dalle caratteristiche del team manageriale più correlate al successo, dal ruolo dei servizi universitari preposti al trasferimento tecnologico.
Va da sé che lo stesso ragionamento (pesare e non limitarsi a contare) va fatto anche per le imprese già consolidate.
E come si fa? Semplice, misuriamo le competenze degli imprenditori che guidano le imprese: quanto più sei competente e tanto più pesi!
Lo abbiamo fatto al CUOA qualche anno fa in un lavoro con Alessandra Tognazzo e Fabrizio Gerli, analizzando un centinaio di imprese, individuando le competenze distinte degli imprenditori, e collegandole ai risultati economico-finanziari delle loro imprese.
Il fattore che impatta maggiormente sul successo dell’impresa è stato definito entrepreneurial engaging exploitation, e identifica gli imprenditori che sanno mettere insieme un marcato orientamento all’efficienza, con la piena consapevolezza di come funziona un’organizzazione e di come si gestiscono le sue dinamiche interne, e soprattutto con una spiccata propensione al lavoro di gruppo. Questi risultati sono consistenti perché sono stati dedotti da un’approfondita analisi di ciò che gli imprenditori sanno (conoscenze), sanno fare (competenze), hanno concretamente fatto nella loro vita (performance). E sono anche utili, perché ci dicono che imprenditori “un po’ si nasce, un po’ si diventa”: non si può insegnare lo spirito di iniziativa o la propensione al servizio, ma si possono insegnare gli strumenti per orientare nelle giuste direzioni queste attitudini innate.
*Direttore scientifico Area Imprenditorialità CUOA Business School