di Fabio Maccaferri*
“Satoshi Nakamoto: chi era costui?” Non me ne voglia Alessandro Manzoni per aver preso a prestito la famosa riflessione di Don Abbondio su Carneade, ma mi semplifica l’esordio di qualche riga per cercare di spiegare cosa sono i bitcoin.
Satoshi Nakamoto è uno pseudonimo[1]: non si sa chi sia costui che ha il non trascurabile ruolo di aver definito, con la pubblicazione il 1 novembre 2008 del manifesto “Bitcoin: a peer-to-peer electronic cash system” quella che sarebbe riduttivo definire un’idea tecnico-economica, dietro c’è anche – non si sa se voluto o meno – un forte aspetto politico prospettico. Nel testo del manifesto non si trova né retorica politica né critiche al sistema finanziario così come è oggi. Anzi, potrebbe essere un assist tecnologico per il sistema finanziario. Il problema che affronta Satoshi (assumendo che sia il nome) sono le controversie e la sicurezza delle transazioni su internet, che hanno comunque una componente fiduciaria fra i soggetti che si scambiano beni e pagamenti e le istituzioni finanziarie non possono esimersi dal dover mediare controversie. Tutto ciò aumenta i costi di transazione e, vista la crescita del commercio elettronico, non si può negare che il problema, già esistente, sia destinato ad aumentare di molto.
Per fare un esempio, un acquisto su internet con la carta di credito. Ha una fortissima componente fiduciaria: nessuno garantisce che sulla stessa carta, il soggetto che è stato autorizzato al prelievo iniziale non la utilizzi per prelievi credibili (e che vanno a buon fine, sono credibili) ma dove non c’è accordo fra le parti sulla transazione. Pensate ai pagamenti ricorrenti di servizi, come ad esempio un abbonamento per i servizi di telefonia cellulare. Decidete di cambiare operatore e vi viene addebitato un importo per recesso anticipato da un contratto di cui non avete copia (è elettronica e stipulato 6 o 7 anni fa). La transazione probabilmente va a buon fine e voi siete costretti ad andare in contenzioso se siete convinti di aver ragione.
Bitcoin nella sua idea originaria si proponeva di trovare un modo che rendesse le transazioni sicure, non riutilizzabili, non revocabili.
Per fare ciò ci vuole tecnologia, e la tecnologia a supporto è la blockchain. La blockchain è concettualmente un libro contabile, una sorta di registro. Il suo compito è quello di assicurare che nessuno spenda 2 volte gli stessi soldi o “faccia 2 volte la stessa transazione” (non è applicabile solo ai soldi).
Più facile spiegare con un esempio. Supponiamo che Mario debba pagare a Giovanni 100 euro. Entra nella sua home banking, e gli fa un bonifico. Se avesse 100 euro sul conto, il suo saldo scenderebbe a 0 e non potrebbe pagare 50 euro a Massimo. Supponiamo che non ci siano dietro le banche, che controllano il saldo, ma abbia sul suo PC 100 cryptoeuro, una moneta digitale che conserva in un portafoglio digitale sul PC (un digital wallet, che può essere anche su tablet, cellulare, cloud… irrilevante) che per semplicità supponiamo che valga tanto quanto l’euro. Manda 100 cryptoeuro a Giovanni, ma non c’è nessuno che controlli che il suo wallet è vuoto e non può fare un altro pagamento. Chi assicura, se non ci sono le banche (o comunque qualche autorità) a controllare il suo saldo? Potrebbe falsificare 100 cryptoeuro ed il gioco è fatto.
La blockchain vuole evitare questo e per farlo chiede aiuto alla rete. Mette i 100 cryptoeuro in un blocco (block) e dice a tutti i partecipanti qualificati della rete di validare questa transazione. Se la validano, è bloccata e quindi Mario non può pagare altri 100 cryptoeuro falsificandoli, perché dovrebbe mettere d’accordo tutti quelli che hanno validato la transazione (tantissimi), e i 100 cryptoeuro sono nel wallet di Giovanni.
Come avviene ciò? Il cryptoeuro è un codice, fatto in modo da non essere duplicabile e riconoscibile. Come se avessi un file MP3: è “let it be” dei Beatles (riconoscibile) e dentro il file c’è un algoritmo che impedisce il funzionamento se duplicato a chi non ha i diritti per ascoltarlo (non duplicabile). Quindi estrae dal wallet di Mario i 100 cryptoeuro e li mette in quello di Giovanni. I partecipanti qualificati “i miners” (minatori) validano la transazione con un algoritmo, così puoi non sapere chi sono e riuscire a trovare la chiave dell’algoritmo di ciascun minatore è praticamente impossibile. L’algoritmo si chiama hash e funziona più o meno così: supponiamo di dividere un numero primo per un altro numero primo maggiore di 2 (primi, mi raccomando, così il quoziente ha infinite cifre decimali). Ad esempio, 3/7, che fa 0,42857142857142857… (sono ripetizioni di “857142”, lo avete notato?) e prendo le cifre decimali dalla 4 alla 11: 5714285. Ora, supponete che vi diano il seguente problema: eccovi “5714285”. Non sapete l’operazione che è stata fatta (divisione? moltiplicazione? radice quadrata? radice cubica?…?) però per forzare il blocco validato, dovete trovare che sono le cifre dalla 4 alla 11 della parte decimale di 3 diviso 7. Complicato.
E i bitcoin cosa sono? Sono una ricompensa per i minatori.
Per ogni blockchain validata (non solo un blocco…) ricevono in premio 15 bitcoin, e la cosa strana è che… non esistono. Sono registrazioni di transazioni, quindi ricevono 15 registrazioni di una transazione che non è fisica, ma è contenuta in un qualche blocco che dice che ho 15 registrazioni sul mio wallet di 15 bitcoin. I minatori possono vendere i bitcoin a un operatore (broker) che li acquista (in euro, dollari, yen…) ed ecco che si forma un controvalore in altra valuta. Non c’è una banca centrale a garantirne il riacquisto, mentre la quantità è un limite algoritmico: massimo 21 milioni di bitcoin. Il confine fra valuta e titolo è debole: è vero che una valuta è anche un titolo (spendibile al portatore), ma perché sia una valuta a tutti gli effetti deve avere un corso, cioè essere accettata come strumento di pagamento. Non posso andare al supermercato e pagare in azioni che ho in portafoglio. Teoricamente sì, se potessi trasferire azioni dal mio dossier titoli al dossier del supermercato in numero sufficiente affinché il controvalore corrisponda al valore della spesa, e ovviamente il supermercato essere disposto ad accettarle.
Posso invece andare al supermercato e pagare in dollari USA, sempre che siano accettati (ma 99% sì).
Per i bitcoin è lo stesso: se sono titoli, siamo nel caso 1, quindi un po’ complicato. Se sono monete, siamo nel caso 2, decisamente più percorribile.
Purtroppo, per poter spendere bisogna che la transazione sia verificata dai minatori e si paga una commissione ai minatori, anche se molti non la fanno pagare perché interessati più ai 15 bitcoin che – per ora – a commissioni di qualche Satoshi, pari a 0,00000001 bitcoin.
Il protocollo bitcoin poi è impostato in modo che ogni blocco impieghi circa 10 minuti per essere validato, e si può avere qualche dubbio che il supermercato sia disposto ad accettare che si formino code alle casse. Non sarei molto contento di trovarmi davanti 6 clienti che pagano in bitcoin, dovrei aspettare 1 ora. Il supermercato dovrebbe quindi organizzarsi con casse speciali automatiche e non è detto che sia disposto a farlo. Questo è un limite – al momento irrisolto – alla circolazione del bitcoin come se fosse una moneta tradizionale o anche elettronica, ma validata da una banca e non dai minatori che controlla il saldo e garantisce la bontà dell’operazione. Un “pagobancomat” è pressoché immediato.
Altro limite, ma non è colpa del bitcoin e dei minatori, è che è stato utilizzato come strumento speculativo, come un titolo più che una valuta. Crescite del 1.200% in un anno (bitcoin) o anche del 30.000% come ripple (un’altra criptovaluta) attraggono molto gli speculatori, ed essendo la negoziazione su mercati non quotati la tutela per gli avventori sprovveduti o più deboli finanziariamente e tecnicamente (quelli che in gergo dispregiativo borsistico si chiamano “parco buoi”) è molto limitata.
Inoltre, è vero che si possono convertire in euro, dollari e yen, ma attraverso broker che applicano prezzi anche molto diversi fra loro.
Non solo, ma l’attività di mining, allungandosi le catene, sta diventando sempre più costosa: consuma un’enormità di corrente elettrica per il lavoro di centinaia di migliaia di computer simultaneamente. La Cina, che il maggior fornitore di minatori (che sono grossi centri di supporto computazionale all’attività di validazione della blockchain) sta avendo seri problemi anche ambientali. Questi centri consumano tanta corrente quanto le attività del resto del Paese. Se i minatori si defilano, come si potrà pagare in bitcoin? In altre parole, finisce il bitcoin – non la blockchain che come tecnologia può essere applicata in campi più ristretti e di gran lunga meno impegnativi in termini energetici.
Quale futuro, quindi?
Vedremo. Nel frattempo eccovi le quotazioni odierne… indicative, perché il prezzo vero ve lo fa poi il broker che acquista.
[1] Non so voi cosa ne pensiate, ma a me gli pseudonimi non piacciono.
*Faculty CUOA Finance