di Maurizio Castro*
Il Master CUOA dedicato al Turnaround & Change Management, giunto alla sua quinta edizione in virtù di una proposta scientifica e didattica che ne ha fatto un punto indiscusso di riferimento nell’agenda delle business school europee, esprime, sin dalla sua denominazione, la convinzione che crisi e cambiamento costituiscano a ogni effetto una sorta di “endiadi”: vi è crisi laddove non sia stato intercettato e governato adeguatamente un cambiamento; e, insieme, non vi è cambiamento se non laddove sia stato stimolato e generato dall’incombere di una crisi attuale o potenziale.
Una riflessione, necessaria e in qualche misura preliminare a ogni altra, si impone nella analisi e nella valutazione delle scelte strategiche e dei comportamenti gestionali da adottare nel corso delle fasi e dei processi di change management ed è una riflessione troppo spesso trascurata o elusa. Essa riguarda il fatto che ciascuna azienda possiede una scandita identità personale, espressione di una specifica cultura (in senso compiutamente antropologico, e non meramente organizzativo); e che, dunque, tutte le volte in cui debba essere attuato un cambiamento profondo, e talora persino brusco, per rimediare a una crisi conclamata ovvero per prevenirla in modo tempestivo convertendola in opportunità di sviluppo, le azioni messe in campo non debbono calpestare o rinnegare tale identità, bensì ri-orientarla lungo una nuova traiettoria e verso un nuovo “orizzonte di senso” e condurla così alla sua “coerente rigenerazione”.
Naturalmente, con il termine cultura aziendale non ci si riferisce soltanto alla miscela, storicamente determinatasi, delle esperienze e delle competenze delle persone-chiave di un’impresa (i fondatori e i loro successori, i manager più significativi, i “custodi” dei saperi tecnici ecc.), ma anche, e soprattutto, al “materiarsi” in una comunità economicamente e socialmente organizzata dei valori distintivi, delle idee costitutive, delle prassi gestionali, delle relazioni territoriali, dei processi tecnologici, delle storie individuali e collettive, delle forme istituzionali, dei prodotti eponimi, insomma di tutto ciò che contribuisce a delineare l’irripetibile profilo identitario e l’irriducibile “personalità” di un’azienda, come tali dotati di una compiuta autonomia e di una distinta autosufficienza corale rispetto alle singole voci che li compongono. Sul punto, valgano gli approdi ormai saldi dell’antropologia culturale, da Edward Burnett Tylor a Bronislaw Malinowski, da David Bidney a Ruth Benedict.
In questa prospettiva, è doveroso osservare come tutto l’apparato normativo più recente, soprattutto di matrice europea, vada in modo sempre più intenso e accelerato evolvendo verso una nitida concezione istituzionale dell’impresa, che supera e trasforma la tradizionale concezione proprietaria ancora dominante in molti segmenti e in molte aree dell’esperienza imprenditoriale italiana. E come ciò imponga, in ogni caso, un ritmato e consapevole processo di change management a esplicita trazione culturale. Per tutti, rammentiamo il fondamentale Decreto Legislativo 231 del 2001 sulla responsabilità amministrativa (de facto, penale) delle società e degli enti; o il Decreto Legislativo 254 del 2016 sulle informazioni di carattere non finanziario; o il Regolamento Europeo 679 del 2016 sulla protezione dei dati personali.
Insomma, è ormai sempre più evidente un percorso che, da un lato, riconosce la natura antropomorfa dell’impresa (e, in generale, delle organizzazioni economiche), abbandonando i vecchi modelli “meccanici”, e, dall’altro, coerentemente enfatizza e valorizza la dimensione e la vocazione etica dei comportamenti aziendali, abbandonando i vecchi modelli “economico-contrattuali”.
Sul piano concreto delle misure di change management che debbono essere implementate, le conseguenze delle premesse teoriche qui sopra sommariamente richiamate sono assai rilevanti. Aiutiamoci con qualche esempio. Se si affronta il piano di turn-around di un’azienda le cui relazioni industriali sono storicamente caratterizzate dalla presenza robusta e persino ingombrante di organizzazioni e rappresentanze sindacali costumate a rapporti conflittuali e a interferenze ostili nella definizione dei processi di produzione, è bene abbandonare la facile tentazione di passare d’emblée a un regime di decisioni unilaterali imposte d’autorità: le resistenze sarebbero invincibili e i relativi costi insostenibili. Va invece avviato, muovendo dal dato – insieme di fatto e “culturale” – dell’elevata influenza sindacale, un processo di mobilitazione delle R.S.U. e delle OO.SS. in un percorso di “partecipazione”, espressamente formalizzato e istituzionalizzato, con la chiara definizione di obiettivi essenziali di recupero di standard appropriati di produttività e di redditività, con la valorizzazione di incentivanti meccanismi di gain-sharing e di welfare, con l’adozione di trasparenti strumenti di verifica e controllo (organismi misti di consultazione) e con l’introduzione di sedi di deflazione del contenzioso e di prevenzione arbitrale delle controversie. Le migliori esperienze di relazioni industriali cooperative e innovative vanno esattamente in questa direzione, e sono scaturite in contesti originariamente a ispirazione antagonista.
Un altro esempio. Se è necessario ricondurre all’equilibrio economico un’impresa indebolita da una gestione finanziaria disordinata e slabbrata, ma ancora contrassegnata da una positiva cultura di prodotto nella cui specificità tecnico-commerciale essa s’identifica, non si adotti un approccio di astratto rigore contabile, di mutilazione “lineare” delle voci di costo in base a un catalogo quantitativamente o addirittura ideologicamente ordinato. Si accompagni ogni intervento di contenimento, di riduzione o di ablazione alla dimostrazione, quasi pedagogicamente atteggiata, che – attraverso tale intervento – si accompagna e si favorisce il riposizionamento competitivo del prodotto, si rende più razionale e più efficace la sua proposizione commerciale attraverso la generazione di margini funzionali a nuovi investimenti in ricerca e sviluppo o in apertura di mercati attrattivi.
Un ultimo esempio. Se un manager è chiamato a risanare un’azienda condotta nel mälström della crisi da un imprenditore di prima generazione, geniale ed entusiasta, ma poi incorso in severi errori di gestione di fronte a scenari tecnologici o di mercato internazionale inattesi, e si trova a operare in un’organizzazione che ha incorporato nella propria cultura la presenza di un decisore esclusivo, di un dominatore assoluto, di un comandante impetuoso e tirannico, è bene che egli eviti di sdrucciolare nella tentazione illuministica di adottare subito un opposto modello di governo in cui siano chiamati a concorrere alle decisioni in modo partecipato e “democratico” i rappresentanti delle principali funzioni e aree organizzative e in cui vengano adottati procedimenti istruttori articolati e complessi, molto formalizzati e segmentati per competenza. Renda sempre espliciti, a differenza delle oscurità “sciamaniche” del suo predecessore, i razionali delle sue decisioni, ma le assuma sempre in modo apertamente ricondotto alla sua personale autorevolezza e alla sua oggettiva responsabilità (= potestà) di capo. In tali contesti, è indispensabile l’assassinio simbolico del padre (= re), ma è non meno indispensabile che la nuova guida, pur fondata su presupposti nuovi e su una nuova legittimazione etico-funzionale, esprima la massima continuità istituzionale, lungo una sorta di discendenza dinastica. Per le stesse ragioni, all’opposto, in un contesto aziendale segnato da una lunga esperienza di non-padronalità, e anzi di solida managerialità della governance quale potrebbe occorrere in una public company multinazionale o in un’azienda a controllo pubblico, un’operazione di turn-around imposta da una precedente stagione di mismanagement dovrebbe veder attuati meccanismi di massimo coinvolgimento delle competenze professionali più significative e di formalizzata loro “partecipazione” organizzativa mediante l’attivazione di sedi e di procedure di consultazione, di decisione, di monitoraggio, di arbitraggio, ecc.
In conclusione, si può sostenere, sulla base di moltissimi, concordanti casi aziendali esaminati anche nel corso delle sessioni del Master CUOA, che è condannata all’insuccesso ogni operazione di change management la quale, rispetto al contesto di cultura aziendale in cui si dipana, sia innaturale, e cioè non sia in grado di essere da quel medesimo contesto compresa e recepita in una condizione di “autenticità” strategico-gestionale. Il cambiamento riesce a essere tanto più cadenzato e forte, e persino radicale, quanto più l’organizzazione che dev’esserne protagonista – e non già mero corpus vile su cui eseguire esperimenti imprudenti o abborracciati – lo colga come coerente con la propria identità storica e, soprattutto, prospettica. Per dirla in modo un po’ ruvido, dev’essere comunicata da chi guida il cambiamento, e in esito a ciò percepita e vissuta da chi lo realizza, la sua natura salvifica, e cioè il suo costituirsi in occasione di sopravvivenza e di continuità comunitaria e non già il suo esaurirsi in una cesura violenta ma accidentale e in una discontinuità allogena, artificiale e financo contaminante.
*Direttore scientifico Executive Master in Turnaround & Change Management