ImpresealCUOA n.47 - Special Issue dell'8 ottobre 2018 La community MBA Imprenditori CUOA

Decreto Dignità e gestione d’impresa

ImpresealCUOA, 8 ottobre 2018 

di Paolo Gubitta*

Le concezioni di lavoro e di gestione d’impresa contenuti nel Decreto Dignità convertito in legge il 12 agosto 2018 sono un po’ distanti da quello che succede realmente. È questo il tema sviluppato in questa riflessione da Paolo Gubitta, professore ordinario di Organizzazione aziendale all’Università di Padova e direttore scientifico di CEFab by CUOA.


Uno degli effetti del Decreto Dignità convertito in legge il 12 agosto 2018 è irrigidire (almeno un po’) le regole sul mercato del lavoro.
In uno scenario economico globale ancora molto incerto (e con la delicatissima partita della Guerra dei Dazi, che non si capisce ancora quanti effetti negativi produrrà), l’irrigidimento delle regole sul mercato del lavoro sarà un problema per le imprese e un boomerang per i lavoratori.

L’enfasi (eccessiva) sul contratto a termine
Il Decreto Dignità ha sollevato molte critiche per la parte relativa alla nuova disciplina del contratto a termine. Qualche osservatore ha però fatto notare che la diffusione dei contratti a termine in Italia è in linea con la medie dell’Unione Europea: 11,8% a fronte dell’11,3%.La memoria scritta di Sebastiano B. Caruso alle Commissioni VI (Finanze) e XI (Lavoro pubblico e privato) della Camera dei deputati, aiuta a fare luce sulla reale portata della proposta legislativa.
Come è concepito oggi, il Decreto Dignità appare:

  1. a) sfocato, perché i contratti a termine sono i meno instabili e quindi non avevano bisogno di maggiori tutele;
  2. b) depotenziato, perché con l’utilizzo della tecnica del divieto e della sanzione (introduzione di vincoli e limiti) ci si illude di poter conformare (anche eticamente) i comportamenti degli operatori economici, ma alla fine si rischia solo l’irrilevanza sociale e l’ineffettività giuridica in forma di prassi elusive;
  3. c) con effetti collaterali, perché si rischia di favorire i contratti più brevi, non ci sono efficaci incentivi ai contratti più lunghi e si scoraggia il contratto psicologico tra datori di lavoro e lavoratori

Perché ignorare il contratto a tutele crescenti?
Se proprio si vuole riformare il contratto a termine e si vogliono riattivare i voucher va preso in mano anche il contratto a tutele crescenti.
La stretta sui contratti a termine si propone di correggere la quasi completa liberalizzazione di questo contratto avvenuta nel 2014 (con il ministro Poletti), che però trovava una spiegazione congiunturale: si doveva dare uno stimolo al mercato del lavoro prima della riforma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, innescando una ripresa occupazionale a qualunque costo. Oggi, Governo e Parti Sociali dovrebbero guardarsi negli occhi e chiedersi se la riforma estemporanea del 2014, che aveva senso come manovra congiunturale di anticipo, oggi assolva ancora a questo compito.
L’obiettivo dovrebbe essere quello di creare un portafoglio di alternative contrattuali che rispondono a bisogni differenti e che rappresentano soluzioni realmente diverse (sul piano economico e organizzativo). Difficile non riconoscere che prima del Decreto Dignità i confini tra il contratto a termine e il contratto a tutele crescenti erano un po’ sfumati.

*Ordinario di Organizzazione aziendale e Imprenditorialità all’Università di Padova e direttore scientifico Centro per l’Imprenditorialità e le Imprese Familiari (CEFab) CUOA Business School

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Photo credit: Andrea Ravanetti