ImpresealCUOA n.47 - Special Issue dell'8 ottobre 2018 La community MBA Imprenditori CUOA

L’idea di lavoro riflessa nel Decreto Dignità

ImpresealCUOA, 8 ottobre 2018 

di Paolo Gubitta*

Il Decreto Dignità convertito in legge il 12 agosto 2018 ambisce a ridurre la precarietà del lavoro, che è nell’interesse di tutti. Perché allora in molti lo hanno criticato? Paolo Gubitta, professore ordinario di Organizzazione aziendale all’Università di Padova e direttore scientifico di CEFab by CUOA, prova a rispondere a questa domanda.


Il Decreto Dignità convertito in legge il 12 agosto 2018 si propone di raggiungere un obiettivo condiviso da tutti: ridurre la precarietà del lavoro. Ciò nonostante, in molti lo hanno criticato: perché? Il nocciolo della questione, non è il cosa ma il come.
La tutela attraverso l’irrigidimento indifferenziato delle regole che disciplinano l’avvio, lo sviluppo e l’interruzione dei rapporti di lavoro mal si concilia con un’economia che sperimenta frequenti alti e bassi, con imprese e interi territori inseriti in filiere globali del valore obbligate a gestire gli alti e bassi che si verificano in altre parti del globo, con attività e interi settori ad elevata stagionalità.
In questa fase del ciclo economico ancora carsica, con gli attuali livelli di disoccupazione e con il numero elevato di NEET che assegna all’Italia la maglia nera in Europa (i giovani tra i 18 e 24 anni che non hanno un lavoro né sono all’interno di un percorso di studi, nel 2017 in Italia erano il 25,7% a fronte di una media europea del 14,3%), la mano pubblica deve farsi carico di due attività chiave:

  • creare le condizioni per agevolare l’avvio di nuovi rapporti di lavoro, anche in condizioni di incertezza;
  • definire un portafoglio di servizi per supportare le persone tra una esperienza professionale e l’altra.

In altre parole, al Decreto Dignità manca tutta la parte sulle politiche attive del lavoro (dall’orientamento, al riorientamento, alla formazione ricorrente), che sono la chiave di volta per ridurre per davvero la precarietà e per passare dalla tutela del (posti di) lavoro alla tutela della persona che lavora.
E se le politiche attive del lavoro proprio non potevano rientrare nel Decreto Dignità, allora sarebbe bastato incentivare le aziende che, ad esempio, trasformano un contratto a termine in un contratto a tempo indeterminato, invece di penalizzare chi non vuole o non può farlo per la troppa incertezza dei mercati o per altre (aziendalmente legittime) ragioni.
L’impatto sarebbe stato il medesimo, ma avrebbe avuto molti altri significati.
Premiare o incentivare i comportamenti virtuosi (usare in modo appropriato il contratto a termine o le altre forme contrattuali a tutele crescenti), in alternativa o insieme a sanzionare quelli scorretti, avrebbe fatto intendere che erano ben chiare le criticità che un numero crescente di imprese e di esperti di risorse umane incontrano ogni giorno, e che riguardano la stabilizzazione delle persone con le competenze adeguate (che a volte le stesse imprese hanno contribuito a formare, anche a proprie spese).

*Ordinario di Organizzazione aziendale e Imprenditorialità all’Università di Padova e direttore scientifico Centro per l’Imprenditorialità e le Imprese Familiari (CEFab) CUOA Business School

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Photo credit: Andrea Ravanetti