10 settembre 2019
di Paolo Gubitta*
Alla Biennale del Cinema di Venezia 2019, lo scorso 2 settembre è stato presentato il film di Alessandro Rossetto, Effetto Domino (Jolefilm e Rai Cinema), liberamente tratto dall’omonimo romanzo del padovano Romolo Bugaro. Perché andare a vedere questo film? Perché racconta la disillusione di un’intera generazione imprenditoriale, scrive in questo articolo Paolo Gubitta, direttore scientifico di CEFab by CUOA.
Andate al cinema a vedere Effetto Domino, il film prodotto da Jole Film e Rai Cinema con la regia di Alessandro Rossetto e liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Romolo Bugaro.
È una pellicola che lascia il segno, oltre al suo valore estetico e cinematografico.
Questo film narra realisticamente la disillusione che lavoratori e lavoratrici, imprese e famiglie imprenditoriali hanno vissuto negli anni più bui della crisi iniziata nel 2008 quando, d’emblée, una sequenza di fattori imprevisti, rapidi e tra loro concatenati (un effetto domino, appunto) ha trascinato molti di loro in situazione di seria difficoltà o addirittura di dissesto.
In molti dialoghi, si usa il dialetto (con sottotitoli in italiano), rendendo ancor più realistica la storia.
Quando lo vedrete, concentratevi in particolare sull’ultima scena e sul dialogo tra l’imprenditore edile Franco Rampazzo e il geometra Gianni Colombo.
È lo specchio della disillusione:
- Amicizie tradite. Franco e Gianni, sono amici da una vita e sodali anche nell’avventura immobiliare che porta al dissesto l’azienda del primo, mentre il secondo fa il voltagabbana, tradisce l’amico e porta a termine l’operazione iniziata insieme con altri soci senza scrupoli, mentre l’impresario sprofonda inesorabilmente nel baratro, portando con sé famiglia, maestranze e fornitori.
- Tutta la famiglia. Nel corso del dialogo si richiama la famiglia, che il secondo non ha ma il primo sì: la moglie e le due figlie lavorano nell’azienda edile di Franco e saranno travolte nel suo fallimento, aumentando il senso di sconfitta dell’imprenditore capo-famiglia.
- Il mito del lavoro. La scena si chiude con Franco Rampazzo che se ne va sconsolato ripetendo «Lavorare, lavorare»: è il mantra di un’intera generazione che ha speso una vita a lavorare, pensando che bastasse questo per raggiungere benessere e felicità.
L’opera di Alessandro Rossetto ci mostra sia una generazione imprenditoriale che è stata incapace di cogliere e di adattarsi rapidamente alle nuove prassi competitive post 2008, sia una società (la nostra), le cui istituzioni e la cui classe dirigente hanno capito tardi la portata del cambiamento e, con poche eccezioni, hanno lasciato la comunità imprenditoriale al proprio destino.
Solo pochi hanno avuto la lungimiranza di progettare e realizzare iniziative per stare concretamente al fianco delle imprese e delle maestranze.
Tra questi, meritano un cenno particolare:
- quelle di CUOA Business School, che ha portato chi fa impresa sui banchi di scuola, in tempo utile per colmare il gap di competenze che la crisi aveva creato e, nello stesso tempo, per demolire il mito novecentesco «dell’imprenditore fatto tutto da sè»
- quelle del progetto InOltre, promosso dalla Regione Veneto e realizzato anche con la Caritas e con le associazioni datoriali, da cui è nata una vera e propria rete territoriale per assistere (in tempo utile) imprenditori, artigiani, professionisti e lavoratori che, travolti dalle difficoltà, rischiavano di scivolare verso tentazioni suicide.
Oggi, il tessuto imprenditoriale si è consolidato (con un percorso per nulla indolore), ma la velocità delle trasformazioni digitali in corso, l’improrogabilità di nuovi modelli di sviluppo sostenibili, le dinamiche dei flussi dei migranti, le proiezioni demografiche stanno creando le condizioni per un altro Effetto Domino, che questa volta rischia di scaricare le conseguenze su una grande massa di lavoratori e lavoratrici di tutte le categorie, e molto spesso senza colpe.
Leggi l’articolo su Corriere del Veneto dello scorso 6 settembre 2019 >>
*Direttore scientifico di CEFab by CUOA