In autunno, il CUOA avvierà una nuova edizione del suo ormai consolidato Executive Master dedicato al governo dei processi di ristrutturazione, di riconversione, e di riorganizzazione nelle condizioni di crisi aziendale e alla gestione del cambiamento strategico e competitivo nelle imprese, che è riuscito negli anni a diventare un punto di riferimento nella riflessione accademica e manageriale e nell’azione formativa.
Il Master si presenta con una variazione onomastica: non più Master in Crisis & Change Management, bensì Master in Turnaround & Change Management. Non è una mera operazione di rinfrescamento della proposizione commerciale del prodotto; è invece, e per davvero, un cambiamento del focus didattico, che abbiamo ritenuto doveroso adottare per accompagnare in modo più energico ed efficace la fase complessiva attraversata dal nostro sistema economico.
Durante i lunghi, convulsi anni della Grande Crisi, ci è parsa cruciale, in un contesto imprenditoriale spesso spaesato e persino straniato di fronte alla possente trasformazione del mondo conosciuto, una vigorosa analisi delle ragioni e della natura della crisi stessa, con particolare riguardo al suo impatto sull’etologia aziendale. Ora, che da quell’analisi sono scaturite consapevolezze adeguate e sono state soprattutto rese note mappe affidabili negli ardui territori del nuovo ecumene competitivo, abbiamo deciso di concentrare e condensare la nostra paideia per l’impresa e il lavoro sulle forme e sulle misure concrete ed effettive da realizzare per allenare alla mutazione, alla sopravvivenza e alla “vittoria” (che è molto diversa dal mero “successo”) le aziende impegnate nello scacchiere concorrenziale globalizzato.
Lungo quali traiettorie dispiegheremo i nostri interventi formativi a beneficio dei dirigenti aziendali, degli imprenditori, dei professionisti, dei consulenti, dei magistrati, dei funzionari delle associazioni datoriali e sindacali che anche quest’anno sceglieranno di partecipare da protagonisti al percorso di edificazione di un nuovo ceto dirigente per il Nord-est e, insieme, di una nuova élite al servizio del Paese pur da una identificata prospettiva territoriale e comunitaria? Ebbene, ci muoveremo soprattutto in quattro direzioni, anche per rimediare a quelle fragilità costitutive dell’esperienza del sistema socio-economico di riferimento che si sono rivelate nell’ultimo decennio un serio impedimento alla sua propulsiva modernizzazione.
Le sintetizziamo così.
La dimensione aziendale come vettore di modernizzazione.
In un contesto i cui – ed è sufficiente scorrere la lista dei champion accuratamente stilata da ItalyPost per averne compiuta contezza – è ancora dominante il modello strategico, divenendo spesso esso stesso modello antropologico, della nicchia, il quale altro non è se non la versione evoluta e in formato da esportazione dell’antico piccolo è bello (certo, un “piccolo” vitaminizzato e hamburgerizzato, de-euganeizzato ed erasmizzato, ma sempre piccolo e dunque periferico ai limiti dell’ininfluenza nei grandi processi industriali), appare necessaria una “educazione alla crescita dimensionale come presupposto dello sviluppo competitivo”. I tratti salienti di una siffatta educazione sono la consuetudine con la prospettiva imperiale dell’identità aziendale: la definizione dei suoi valori fondativi e dei suoi elementi distintivi, della loro autenticità e della loro consistenza etica, la sua vocazione universale, la sua capacità di integrazione e di assimilazione, il suo equilibrio regolatorio.
Lo strumento operativo della crescita è l’acquisizione: e si tratta forse dello strumento più difficile da utilizzare congruamente a opera delle imprese nordestine, che ad esso si sono spesso rivelate refrattarie se non idiosincrasiche. È un tema chiave per costruire un futuro vincente, sebbene ingiustamente negletto (pur rivestendo il medesimo rango di quello, molto dibattuto e poco applicato, di una appropriata successione generazionale). Si potrebbe parlare dell’urgenza di un vero e proprio riposizionamento della dimensione aziendale nel ranking concorrenziale, da far seguire, integrandolo, al già ampiamente e positivamente praticato riposizionamento del segmento di mercato presidiato (la high road strategy).
Le relazioni industriali partecipative come vettore di modernizzazione.
È stato paradossalmente, ma non erroneamente, indicato tra i fattori che hanno contribuito negli anni più recenti a rendere il sistema manifatturiero dell’Emilia Romagna capace di realizzare performance più solide e più convincenti di quello del Veneto la presenza forte, e persino ingombrante, del sindacato: a sottolineare come un’interlocuzione dialettica vivace e incalzante e un’articolazione dei rapporti istituzionali più sofisticata e meno autoreferenziale spesso contribuiscano all’assunzione di decisioni strategiche più illuminate, più ambiziose, più aperte, più abili e “competenti” nell’interpretazione e nell’intercettamento dei cambiamenti strutturali del business. È uno stimolo interessante, e va raccolto. Il Nordest è secolarmente portatore di una cultura “organicista” dei rapporti sociali, connotata da un’esplicita trazione comunitaria, che ha trovato nella vissuta cattolicità del pensiero di un Toniolo o della sperimentazione di un Luzzatti scanditi momenti di inveramento: è giunto il tempo di superare i suoi limiti tradizionali (il rattrappimento nel paternalismo, da un lato; l’informalità esasperata, portatrice di volatilità e accidentalità, dall’altro), costruendo modelli, innovativi ma affidabili, di relazioni industriali partecipative. Gli strumenti normativi a disposizione sono numerosi e gagliardi (si pensi solo alle opportunità offerte dalla riscoperta dell’art. 8 l. 148/2011 e delle sue potestà derogatorie della legge e del contratto nazionale, dallo sviluppo della bilateralità in materia di previdenza complementare, sanità integrativa e welfare territoriale, dall’intensificazione della concertazione “meso-corporativa” a livello regionale e dal rilancio di forme evolute di gain-sharing quali la distribuzione degli utili “alla francese” o gli ESOP).
La valorizzazione della complessità come vettore di modernizzazione.
Il CUOA nel suo complesso è impegnato, anche attraverso le riflessioni promosse e guidate dal suo direttore scientifico, il prof. Alberto De Toni, in una valutazione della complessità come fattore competitivo, con particolare riguardo al fatto che la crescente complessità dello scenario generale e degli scacchieri tattici debba trovare una risposta organizzativa non già nella forzatura di risposte semplificate e “machiste”, di stile “gordiano” (il colpo di spada che scioglie il nodo intricato e resistente), bensì nel “recepimento attivo” della complessità medesima, attraverso strutture più articolate e stratificate, analisi più sofisticate e penetranti, modelli alimentati dalla pluralità degli approcci, apporti diversificati e inclusivi, ecc.. Nel Master, dove abbiamo già individuato e tipizzato ben undici diverse “crisi” (finanziaria, tecnologica, dimensionale, organizzativa, manageriale, settoriale, geografica, proprietaria, reputazionale, sanzionatoria, politico-istituzionale), cercheremo di indurre i nostri allievi a incorporare nel proprio sé professionale la complessità come valore e come ricchezza, rifuggendo dal prometeismo plebeo oggi copiosamente diffuso in molti decisori che tendono a ribellarsi ai cambiamenti attraverso la riduzione della portata degli stessi al perimetro angusto della dominabilità diretta da parte della “vittima”.
Il radicamento organizzativo di una managerialità “indipendente” come vettore di modernizzazione.
Sarebbe ipocrita tacere come vi sia un oggettivo contrasto, e quasi un taciuto conflitto, tra una concezione proprietaria dell’impresa e una concezione istituzionale della stessa. Sebbene tutta l’evoluzione normativa, nazionale e sovranazionale, sia ormai orientata e diretta con nitidezza a ribadire e radicare la seconda, la prima resta pertinacemente praticata nella maggioranza dei casi. Le applicazioni stentate, gracili, esangui delle disposizioni in materia di modello organizzativo (D. Lgs. 231/2001) o di dichiarazioni non finanziarie (D. Lgs. 254/2016) o di GDPR (Regolamento 2016/679) stanno lì a dimostrarlo. Una delle più dense criticità risiede nel fatto che nel Nord-est ha faticato a imporsi, anche per la carenza dei bacini di alimentazione rappresentati dalle grandi imprese, un ceto manageriale professionalmente e culturalmente competente e indipendente, capace di innescare dialettiche virtuose con la proprietà. All’assenza di una forte borghesia imprenditoriale, corrisponde inesorabilmente un deficit storico-funzionale di borghesia professionale. Tra le esplicite ambizioni del nostro Master, c’è anche quella di contribuire a favorire la germinazione di un management preparato e aperto, leale ma non subalterno alla proprietà aziendale, innovativo e orgoglioso dei suoi saperi e delle sue relazioni corali, forgiato nella competizione di mercato ma educato alla solidarietà sociale e all’esercizio severo della responsabilità.
Autore: Maurizio Castro, Direttore scientifico Executive Master in Turnaround & Change Management
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