In questi giorni di coronavirus e di distanze (sociali e fisiche) forzate, la tecnologia assume una nuova centralità nel nostro modo di vivere, studiare, lavorare. Le persone fanno la spesa in internet, vedono film in streaming, contattano i loro cari in videochiamata. In scuole e università si fa lezione on-line, ci si laurea in remoto, si fanno esami sotto lo sguardo attento del professore che controlla gli studenti dalla telecamera del computer. Per quanto riguarda infine il lavoro, per alcuni osservatori questo momento è da considerarsi come una grandissima opportunità per studiare limiti e possibilità dello smartworking (si veda ad esempio l’intervista al sociologo Domenico De Masi, dello scorso 15 febbraio sull’Huffington Post).
Molte aziende italiane (anche operanti nel comparto pubblico) stanno proponendo ai propri collaboratori di lavorare da casa, riducendo la necessità di spostamenti e il rischio di contagio collegato a contatti con colleghi, clienti e utenti. L’entusiasmo di alcuni è bilanciato però dalle perplessità di altri che mettono in luce come ibridare il lavoro con la tecnologia (nel gergo che utilizziamo in questa rubrica potremmo infatti dire che stiamo vivendo una grande sperimentazione di ibridazione) non sia solamente una questione di software e connessioni digitali ma anche, e soprattutto, di contenuti e organizzazione del lavoro.
La tecnologia, infatti, sembra paradossalmente (in quanto finora è spesso stata addotta come alibi alla scarsa diffusione dello smartworking) l’ostacolo più facilmente superabile. Il Ministro per l’Innovazione tecnologica e la digitalizzazione ha lanciato un’iniziativa di solidarietà digitale finalizzata a offrire servizi digitali e di connettività gratuiti a tutti coloro che vivono e lavorano nelle “zone rosse”. Le quotazioni di borsa di aziende che sviluppano e commercializzano sistemi di videoconferenza sono in significativa e costante crescita: da GoToMeeting il cui valore negli ultimi quattro mesi è cresciuto del 16%, a Zoom che ha visto raddoppiare il prezzo delle proprie azioni nello stesso periodo. Il cambiamento sostanziale che è richiesto dall’ibridazione del lavoro non sta dunque nell’adozione di nuove tecnologie ma piuttosto nel modo in esse si intrecciano con le tradizionali modalità lavorative.
Per alcuni, infatti, la decantata possibilità di lavorare in ogni luogo, come ad esempio da casa, non si dimostra necessariamente un aspetto positivo se mancano strumenti, spazi organizzati, tempi nei quali ci si può dedicare al lavoro isolandosi (mentalmente e fisicamente) dalla famiglia. In altri termini, come è stato dimostrato da numerose ricerche che hanno studiato lo smartworking, svolgere le proprie attività in spazi in cui si mescolano la dimensione privata e quella professionale non è una modalità di lavoro facilmente adottabile da tutte le persone.
In secondo luogo, lo smartworking mette in crisi modelli organizzativi basati sulla presenza, sul controllo visivo della prestazione e sull’idea che la produttività sia proporzionale al numero di ore trascorse in ufficio. Interessante in questo senso notare come la circolare del Ministero per la Pubblica Amministrazione pubblicata lo scorso 4 marzo dedichi un intero articolo al tema del monitoraggio e della «misurazione delle produttività delle attività svolte dai dipendenti». Adottare misure di smartworking preoccupandosi del monitoraggio continuo del collaboratore dimostra un’incapacità di comprenderne gli impatti organizzativi: non si tratta infatti semplicemente di effettuare da remoto un’attività che prima veniva svolta in presenza ma di ridisegnare il lavoro assegnando compiti che possono essere svolti senza vincolo di orario e di luogo e quindi con autonomia rispetto alle modalità di esecuzione. Se per alcune aziende questo cambiamento può apparire una rivoluzione copernicana (soprattutto per quelle che interpretano la tecnologia come mero strumento di ottimizzazione dell’attività del lavoratore, quali quelle descritte nell’ultimo film di Kean Loach «Sorry we missed you»), per altre è una sorpresa prevedibile che può favorire l’introduzione di nuovi modelli organizzativi e culturali che ibridano in modo virtuoso lavoro umano e tecnologia.
Autore: Martina Gianecchini, Professoressa Associata di Gestione delle Risorse Umane all’Università di Padova e referente scientifica dell’Executive Master in Human Resource Management – CUOA Business School.