Finanza d'Impresa

La complessità del rapporto banca-impresa nell’era della pandemia

Gli effetti della crisi sono sotto gli occhi di tutti e leggere i dati, a consuntivo, è esercizio retorico. Ma è, talvolta, utile per comprendere meglio gli scenari in cui ci si deve muovere.

Il 2020 si è chiuso con una variazione del Pil a -8,5/-9,0% circa, un rapporto debito/Pil a 159/160% circa, aiuti Covid per il 6,8% del Pil (112 miliardi; ora già 135 con l’ultimo scostamento di bilancio approvato), 2,7 milioni di domande di moratoria sui mutui (di cui il 43% dal mondo imprese), finanziamenti con controgaranzia pubblica per circa 130 miliardi complessivi.
Il costo complessivo pro-capite della crisi ammonta a 5.420 euro (stima Fondazione nazionale dei Commercialisti; dato dalla variazione pro-capite del pil e del debito: -2.371, persi; +3049 aggiunti).

E ancora: calo del 53% dei voli interni; calo del 94% delle prenotazioni ai ristoranti (del 35% nei periodi senza lockdown); 37 milioni di visitatori internazionali in meno nel nostro Paese; 62% delle imprese con calo di fatturato di almeno il 4%, con punte di oltre il 30% nella ristorazione (per l’80% del cluster), nel tessile-abbigliamento (per il 40%), nell’industria (per il 18%); rischio di probabile necessità di ricorso alle procedure di crisi d’impresa nel 2021 per 115 mila attività.

Infine, non potendo essere prorogate sine die, nel corso del 2021 le misure emergenziali dei blocchi ai licenziamenti, del divieto alle revoche dei fidi e delle moratorie (quest’ultima misura, già interrotta in tutti gli altri Paesi della UE) verranno necessariamente meno, aprendo scenari non semplici nella gestione del rapporto banca-impresa e, sullo sfondo, resta ad oggi previsto per settembre l’attivazione definitiva del nuovo codice della crisi (per le parti non già in vigore).

Appare dunque di tutta evidenza, quasi come novello “imperativo categorico” di kantiana memoria, l’esigenza di introdurre maggiore razionalità nelle scelte finanziarie aziendali, a sostegno dei piani d’impresa (se non di “ripresa”, almeno di “sopravvivenza”).
Ragionare per “scenari paralleli” e “logiche di stress test” è ora ancor più necessario di quanto non già lo fosse prima.

Comprendere meglio il ruolo, ai fini delle regole di Basilea, delle garanzie collaterali (più in termini di negoziazione del pricing che di “volume” di accesso al credito), delle dinamiche della probability of default (sono i “numeri” dell’azienda a determinare la selezione avversa del merito creditizio) e del corretto utilizzo (con metodo analitico di previsione, non partendo dall’ebitda annuale) del debt service coverage ratio, almeno, aiuterebbe (anche) nella comprensione “attuativa” del requisito di adeguatezza degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili, introdotto dal nuovo (e più volte rimandato, in parte, ma non in “questa” parte) codice della crisi e dell’insolvenza d’impresa.

Dal ché, se si è compresa la ratio fin qui esposta, appare forse superfluo sottolineare ancora una volta la conseguenza logica che i concetti (economici) di rischio e di valore altro non siano che due facce della stessa medaglia: inscindibili, nelle loro dinamiche, oltre che convergenti, nel loro perseguimento, poiché in assenza di una corretta gestione dei rischi aziendali non vi è creazione di valore sostenibile nel tempo.

In altri termini, la valutazione di adeguatezza degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili (non riducibile al mero controllo di gestione o, ancor meno, al semplice calcolo degli indicatori di allerta obbligatori) “condiziona” il giudizio di continuità aziendale (ora che tornerà a pieno regime) e, questo, è condizionato dalla capacità di far fronte agli impegni finanziari con i flussi di cassa prospettici e/o con il ricorso potenzialmente ottenibile di nuove forme di finanziamento. Cioè, estremizzando per semplificare, potendo dimostrare “merito creditizio” (ovvero capacità di reperire nuovo equity) e un’adeguata “capacità predittiva” (che, invero, non è saper predire “il risultato” nel futuro, ma è saper costruire “un piano”, metodologicamente razionale, per il futuro).

Solo che, decreti emergenziali a parte, le dinamiche del credito ci dicono che: in termini di stock di finanziamenti alle imprese non finanziarie, dal dicembre 2011 al giugno 2019 vi è stata una riduzione complessiva di circa 250 miliardi (da 893 a 643); l’accesso al credito è strettamente correlato al grado di rischio (facilità decrescente al crescere della vulnerabilità dell’impresa) e al livello dimensionale (facilità crescente al crescere della dimensione dell’impresa; gap decrescente alla riduzione della rischiosità dell’impresa); i fenomeni di concentrazioni fra banche in atto, siano queste dovute a crisi di singoli attori (a prescindere dalle – inesatte, a parere di chi scrive – polemiche sul bail in) che a percorsi di sviluppo dimensionale, nei fatti rischiano di comportare (rectius, comportano, a livello empirico) una sostanziale contrazione delle linee affidate in capo all’impresa cliente “condivisa”.

In più, dal lato delle banche, il momento storico emergenziale si somma ai rischi di sostenibilità del loro modello di business e, di conseguenza, al rischio di discontinuità nel loro ruolo di fornitori di “ossigeno” (finanziario) al sistema economico. Semplificando al massimo, anche le banche stesse sono messe alla prova della sostenibilità futura dei loro business model: da un lato, il processo di disintermediazione finanziaria (soprattutto in termini di credito a breve) e la pressione sui margini data dai tassi di interesse – attivi e passivi – ridottisi “attorno allo zero”;  dall’altro, la disruptive digital innovation, sia in termini di processi che di prodotti (open banking platform, dal lato credito; critpto-assets, dal lato investimenti, non dimenticando la concorrenza crescente degli attori fintech non bancari) e il costo crescente della fully compliance normativa (a 360 gradi). In estrema sintesi, un periodo nel quale il business bancario si presenta con un alto costo del capitale e un basso Roe medio, nel quale i requisiti di capitale (rectius, patrimonio di vigilanza) costituiscono l’indicatore primario per l’assunzione di rischi di investimento (compresi quelli di credito). E nel quale non ha certo un facile compito né il regolatore e né la vigilanza.

Appare quindi evidente come un tale “magma” di concause generi incertezza sul futuro e, quindi, un calo di “fiducia”, sia sul fronte imprese (attesa del futuro per nuovi investimenti), sia sul fronte banche (riduzione dell’esposizione al rischio), che sul fronte del risparmio (allocazione delle risorse finanziarie).

Se però si è tutti concordi che per uscire dalla crisi occorra dunque recuperare “fiducia”, nel futuro e nel sistema economico-finanziario, occorre anche (o forse soprattutto) riuscire a reagire alla “sindrome del millepiedi” (cioè il non saper da quale piede iniziare per muoversi), di fronte all’incertezza del futuro.

Ecco perché serve, mai come ora, una maggiore razionalità nelle scelte finanziarie d’impresa; e, al contempo, perché il ruolo dei cfo, dei consulenti d’impresa e dei commercialisti, oltre che delle banche (tanto gestori di relazione che decisori), essendo più che mai “al centro” di processi decisionali determinanti per il futuro dei singoli soggetti (e conseguentemente del sistema economico, per somma), necessita di essere rafforzato, nella sua formazione e nella sua percezione consapevole.

Infine, per completezza, andrebbe detto che non tutto dovrebbe gravare sulle spalle dei singoli attori, essendo possibile individuare delle forme di sostegno sistemiche, oltre a quanto sin qui fatto con i decreti emergenziali.

Individuare forme agevolate (anche fiscali) di maggior sostegno all’equity, introdurre forme regolate di “matusalem financing” (l’allungamento delle scadenze di rimborso, a fronte di maggiore trasparenza e attestazioni sui dati prospettici, determinerebbe un minor sforzo finanziario per il prenditore e, quindi, un modo di prevenire l’esplosione di situazioni di default) e l’introduzione di un fondo accentrato pubblico/privato per la gestione dei futuri NPL derivanti dai finanziamenti emergenziali ex-Covid (disinnescando l’ipotesi di preferenza per l’escussione delle garanzie pubbliche da parte delle banche, consentendo una gestione distressed del credito, genererebbe un minor impatto futuro sul bilancio dello Stato), costituirebbero, ad avviso di chi scrive, un efficace framework per affrontare con più fiducia le incertezze del futuro.

Autore: Francesco M. Renne – Commercialista, Studio Associato Renne & Partners, Faculty Member CUOA Finance