Il tema delle tecnologie applicate al mondo dei servizi finanziari, il cosiddetto FinTech[1], certamente, non è nuovo, anzi da tempo è oggetto di attenzione e indagine sia da parte degli operatori economici presenti sul mercato (finanziari e non finanziari), sia da parte dei centri di studio e ricerca (emanazione di società di consulenza e ricercatori accademici), nonché del regolatore e dei policy makers (in ambito internazionale, europeo e nazionale).
Lo sviluppo del FinTech è, innegabilmente, un processo già concretamente avviato e di fatto irreversibile, una realtà che ormai comincia a manifestare in modo palese e tangibile il suo impatto pervasivo e trasversale su più ambiti operativi e funzionali dell’intero sistema economico e finanziario (digital lending e servizi per le PMI, cybersecurity, RegTech, WealthTech, Open Banking), rafforzando la convinzione, piuttosto diffusa tra gli osservatori, che la collaborazione strategica con le imprese finanziarie (in particolare, le banche) rappresenti, in prospettiva, il futuro delle FinTech applications.
Piuttosto, ciò che rende, se possibile, ancora più attuale il dibattito intorno al potenziale delle applicazioni FinTech ai processi economici, finanziari e commerciali dell’intero sistema produttivo è la significativa accelerazione che la realizzazione di questi progetti ha registrato (in termini di investimenti, ma anche di iniziative progettuali e start up) nel giro di poco meno di un anno a questa parte, a seguito della drammatica espansione del contagio pandemico.
In effetti, la pandemia da Covid-19 sembra avere agito come inatteso fattore abilitante in risposta alle istanze emergenziali provenienti sia dal mondo lavorativo che dal mercato (nuove modalità di lavoro, crescente digitalizzazione delle imprese, inclusione digitale per ridurre il digital divide, mutamenti nei comportamenti dei consumatori, con una rinnovata attenzione, ad esempio, nei confronti delle polizze di assicurazione sulla vita).
E c’è da aspettarsi che le risorse straordinarie destinate dall’Europa per fronteggiare la crisi pandemica ed avviare la ripresa economica[2] contribuiranno ulteriormente a rafforzare la spinta in atto, che potrebbe, inoltre, trovare una sponda favorevole nell’attuazione dei programmi governativi recentemente intestati al neo istituito Ministero per l’Innovazione Tecnologica e la Transizione Digitale, oltre che nelle linee guida del piano triennale 2020-2022 dell’Agenzia per l’Italia Digitale.
Detto questo, con riferimento più specifico al settore bancario italiano, una recente ricerca[3] ha evidenziato come la quasi totalità (88%) delle banche intervistate abbia riprogrammato gli investimenti in tecnologia per adeguarli alle nuove priorità emerse sotto la spinta dell’emergenza pandemica, in particolare per facilitare l’attivazione dei servizi in autonomia da parte del cliente, svincolandolo dalla necessità di passare dalla filiale, e per il potenziamento dei servizi mobile (che, per inciso, stanno soppiantando il tradizionale canale home banking). Ed è chiaro che le nuove modalità operative, non tradizionali, saranno mantenute anche quando la pandemia sarà finalmente cessata, perché rappresentano un nuovo standard operativo di riferimento per garantire al cliente migliore qualità e servizi personalizzati, integrati e sicuri. La ricerca in questione sottolinea, infine, che “ben il 64% delle banche vogliono fare partnership con il FinTech, ma seguendo strade differenti. Le banche di grandi dimensioni sono propense infatti anche a creare incubatori e spazi di sperimentazione con il FinTech e startup innovative”, definendo così “le peculiarità del nuovo ecosistema digitale che si sta creando a seguito della PSD2: un ecosistema appunto non tradizionale, perché ogni player ricopre ruoli differenti e, a volte, contrapposti”.
Se a questo quadro generale, che dipinge lo scenario evolutivo del FinTech, aggiungiamo la necessità strategica per le banche di fronteggiare la drastica contrazione della redditività (principalmente dovuta alla cattiva qualità del credito, retaggio della grande crisi finanziaria, peraltro acuita dalla crisi pandemica e per di più amplificata dalle più severe e stringenti normative contabili e di vigilanza regolamentare nel frattempo introdotte, ma non estranea, tuttavia, alla preesistente e perdurante contrazione dei volumi di impiego, nonché alla significativa riduzione del mark up sui prestiti con conseguente riduzione del contributo del margine di interesse alla formazione del reddito), è inevitabile chiedersi se proprio il FinTech possa rappresentare la strada per approcciare nuovi mercati con modelli di business innovativi.
In altre parole, nel mondo che verrà (il tanto atteso quanto enigmatico next normal dai confini ancora indefiniti, avvolti dalle nebbie di un futuro prossimo tuttora difficile da prefigurare con accettabile ragionevolezza), ci si chiede, il FinTech potrebbe aiutare le banche a ritrovare (almeno in parte) la perduta redditività?
La risposta non sembra univoca. È pur vero che, come è stato osservato, le piattaforme di open banking e hub FinTech giocano un ruolo importante per abilitare nuovi modelli di business o anche solo per facilitare accordi e integrazioni con terze parti per rinnovare i propri prodotti e servizi da parte delle banche[4]. Inoltre, il FinTech in Italia è un settore in rapida ascesa e l’interesse per l’innovazione nei servizi finanziari è in crescita sia presso la clientela retail sia presso gli investitori.[5] Secondo stime di Banca d’Italia, nel periodo 2017-2020 gli investimenti FinTech nel settore finanziario del nostro Paese ammonterebbero a oltre 620 milioni di euro (oltre un terzo dei quali spesi nel biennio 2017-2018), in prevalenza riconducibili alle banche (80% circa del totale).[6]
Date le premesse, insomma, un possibile scenario atteso per le banche potrebbe immaginarsi caratterizzato da una sorta di polarizzazione che vedrebbe la coesistenza sul mercato, almeno per un certo periodo, di banche “legacy”, connotate da una visione prevalentemente tradizionale del modello di business, e banche “challenger”, campioni del prototipo di neo banks che si sta gradualmente affermando (anche in Italia), fondate su una visione fully FinTech o, comunque, significativamente orientata, sia strategicamente che operativamente, in direzione delle tecnologie applicate ai processi finanziari.
Per entrambi i poli sarà, però, cruciale individuare con chiarezza le priorità strategiche da porre a base del vantaggio competitivo sostenibile nel lungo periodo (ad esempio, differenziazione versus leadership di costo), da perseguire attraverso percorsi di crescita organica piuttosto che per linee esterne o tramite alleanze e partnership, ma in ogni caso mettendo in conto significativi investimenti, non solo di prodotto ma (soprattutto) di processo.
Va tenuto presente, infatti, che la sfida che il sistema bancario ha di fronte (il ritorno ad una soddisfacente e durevole profittabilità) è destinata a coinvolgere una molteplicità di aspetti dell’operatività aziendale e, conseguentemente, a stimolare iniziative e ad assumere linee di azione da parte del management che avranno impatto non solo sul modello di business, ma anche sul modello di servizio, sul modello distributivo e – ultimo ma non ultimo – sul modello di controllo. In definitiva, tutti i processi core aziendali risulteranno impattati dalle azioni strategiche poste in essere, con importanti cambiamenti anche nell’ambito della gestione delle risorse umane (formazione, recruiting, specializzazioni funzionali per nuove posizioni organizzative, non solo data analytics, ma anche product, compliance e cybersecutity).
Di certo, la sfida per la riconquista della marginalità nello scenario next normal richiederà visione e capacità manageriale per collocare i piani di azione nella giusta prospettiva. Dopo tutto, i margini reddituali hanno sempre due “anime”: da un lato i proventi operativi (che in banca formano il margine di intermediazione, con i ricavi netti da interessi e commissioni a farla da padrone, quanto meno nel modello tradizionale della banca commerciale retail), dall’altro i costi operativi, legati alla dimensione strutturale, ai processi interni e all’efficienza operativa.
Una volta normalizzato il flusso delle rettifiche di valore sui crediti, gravame in grado di (purtroppo ma verosimilmente ancora per un po’ di tempo, a causa del prevedibile aumento dei crediti deteriorati post pandemia) ridurre significativamente la marginalità operativa in senso stretto (fino ad annullarla, come accaduto nei tempi recenti), il punto centrale diventa (banalmente) trovare il trade off tra crescita dei proventi e contenimento dei costi.
È perciò importante non trascurare nessuno dei due termini della questione, per non rischiare di porre eccessiva enfasi sulla ricerca di una redditività basata esclusivamente sulla massimizzazione dei proventi, a discapito di un’attenta ed accurata spending review.
Se da un lato, infatti, è doveroso rivolgere l’attenzione alla individuazione di nuove aree di business dalle quali estrarre valore, dall’altro (e non secondariamente) è altrettanto importante sviluppare la sensibilità nei riguardi dei processi interni e delle funzioni operative dei canali distributivi, della “fabbrica” e del back office, coltivando in maniera intelligente e costante la ricerca di efficienza.
Come si intuisce facilmente, entrambe le direttrici di azione suggerite si sposano tanto con la visione tradizionale del business, quanto con quella più innovativa, orientata al FinTech.
Ad esempio, se guardiamo più da vicino al primo aspetto (la ricerca di fonti di ricavo), è noto come nel sistema bancario italiano, costituito per la più gran parte da banche che operano (quale più, quale meno) secondo il tradizionale modello di banca commerciale retail, la redditività risulta oggi sacrificata, strutturalmente, da una composizione dei ricavi caratteristici che riflette quel modello di business (oltre che, congiunturalmente, dalle rettifiche di valore dei crediti classificati come esposizioni deteriorate).
Infatti, strutturalmente la componente dei ricavi derivante dai volumi di intermediazione creditizia (margine di interesse)[7] risulta mediamente superiore alla componente dei ricavi derivante dai volumi di servizi (commissioni nette). Per di più, le commissioni attive presentano, all’interno della propria composizione, una incidenza assai significativa dei ricavi per servizi di incasso e pagamento, per la tenuta e gestione dei conti correnti e per altri servizi (tutte componenti che – nel loro insieme e per la funzione svolta nell’ambito delle attività riservate alle banche – potremmo qualificare sinteticamente come costi di transazione per il sistema economico nel suo complesso).
Da una nostra analisi condotta sui primi quattro gruppi bancari italiani quotati, emerge che nella media il rapporto tra margine di interesse e commissioni nette è pari a 1,23, mentre l’incidenza dei c.d. costi di transazione è pari a poco meno della metà delle commissioni attive totali, sempre in media. Tali rapporti, se osservati con riferimento ai gruppi bancari cooperativi, salgono rispettivamente a 1,97 e a oltre due terzi.[8]
Da questi dati appare evidente che amplificare i proventi operativi agendo sulla componente commissionale (quella più “pregiata” e pienamente attivabile solo in funzione di definite strategie di differenziazione) richiederà necessariamente l’individuazione di nuovi spazi di mercato e, in tale direzione, le soluzioni FinTech potrebbero spingere, appunto, verso nuovi modelli di business (roboadvisor, piattaforme di lending, pagamenti e blockchain) per intercettare i bisogni del mercato.[9]
Passando al secondo aspetto messo in evidenza sopra (la ricerca di efficienza operativa), ci pare invece che esso rimanga ancora piuttosto in ombra e non abbia tuttora ricevuto da parte degli analisti e degli osservatori la dovuta enfasi che merita. Ma la sfida è aperta e molti progetti sono già effettivamente in corso da parte degli operatori per semplificare i processi aziendali e ridurre i costi, anche con l’obiettivo di ripensare da cima a fondo l’organizzazione dei sistemi IT consolidatisi nel tempo anche a seguito delle operazioni di aggregazione aziendale susseguitesi nel tempo (e ritenuti in taluni casi troppo “costosi e monolitici”).
Non si dimentichi, peraltro, che aumentare la produttività dei processi operativi legati a quei servizi che, come detto sopra, generano costi di transazione per l’economia, significherebbe anche aumentare la competitività del sistema economico nel suo complesso, riducendo i costi dei servizi resi a consumatori, risparmiatori, investitori e imprese.
Infatti, nella logica di estrarre valore per generare redditività, è fondamentale che il valore sia fruito e percepito dal cliente, innanzitutto: in questa prospettiva, forse le banche dovrebbero cominciare ad abituarsi all’idea che il cliente potrebbe non avere neanche più bisogno di una banca in quanto tale, bensì dei servizi che (almeno finora) solo le banche sono autorizzate a fornire. Questo è un punto centrale per ripensare le future strategie delle banche, le quali di fatto già si trovano a competere (complice anche la direttiva europea PSD2[10]) con soggetti “non bancari” (le c.d. neo banks, per esempio, non sono necessariamente imprese dotate di licenza bancaria), in un contesto caratterizzato da approcci fondati su processi open banking dove le specializzazioni funzionali esaltate dal FinTech potrebbero alla lunga sottrarre significative quote di mercato alle attività fino ad oggi riservate alle sole banche vigilate.
Conclusivamente, un ultimo aspetto da segnalare e cioè la necessità per il regolatore di assicurare un level playing field che consenta, da un lato, una sana competizione di mercato e, dall’altro, il rispetto delle regole per la tutela dei consumatori e degli investitori. Sono infatti da considerare con molta attenzione e cautela le ricadute normative e regolamentari che il FinTech postula nel suo insieme e, nello specifico, con riguardo al settore bancario, tenuto conto, peraltro, dell’elevato rischio relativo alla protezione e sicurezza dei dati (cybersecurity).
In sintesi, i rischi connessi al FinTech sono riferibili ai soggetti partecipanti al mercato e, per propagazione, all’intero sistema finanziario. Di conseguenza, di possono individuare rischi nei confronti di consumatori ed investitori (misselling di prodotti e servizi, privacy, protezione dei dati, sicurezza delle informazioni), rischi nei confronti degli intermediari finanziari (sostenibilità del modello di business, governance, rischio tecnologico, antiriciclaggio), rischi di stabilità finanziaria (rischio di concentrazione, shadow banking, vulnerabilità ecc.).[11]
Autore: Marco Ciabattoni – Dottore Commercialista e Revisore Legale, Professore a contratto nell’Università di Padova, Faculty Member CUOA Finance
[1] Come noto, il termine FinTech (i.e. “tecnologia applicata alla finanza”) è utilizzato per fare riferimento all’innovazione nel settore dei servizi finanziari resa possibile dalla tecnologia che può sfociare in nuovi modelli di business, applicazioni, processi o prodotti e avere effetti concreti sui mercati e gli enti finanziari e sulle modalità di prestazione dei servizi finanziari (cfr. http://www.fsb.org/what-we-do/policy-development/additional-policyareas/monitoring-of-FinTech/).
[2] Ci si riferisce, naturalmente, al Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) alimentato attraverso la dotazione del fondo Next Generation UE e collegato al programma di ripresa Recovery Fund and Resilience Facility, approvato dal Parlamento Europeo nel febbraio di quest’anno. Si tenga presente che circa il 20% delle risorse del PNRR sono destinate alla transizione digitale.
[3] Risultati dello Scenario ICT 2021 presentato da CRIF nel corso del Forum ABI Lab tenutosi dal 22 al 26 al marzo 2021, vedi https://www.abilab.it/web/guest/forum-abi-lab-2021
[4] Vedi la ricerca curata da Pwc Le FinTech alla prova del Covid-19, disponibile all’indirizzo https://www.pwc.com/it/it/industries/fintech/docs/pwc-fintech-covid19.pdf.
[5] Si faccia riferimento a quanto riportato nell’indagine FinTech waves – The italian FinTech ecosystem realizzata da EY e dal Fintech District (settembre 2020) consultabile all’indirizzo https://www.ey.com/it_it/news/2020/09/l-ecosistema-italiano-del-fintech-oltre-il-covid-19
[6] Cfr. BANCA D’ITALIA, Indagine FinTech nel sistema finanziario italiano, dicembre 2019.
[7] Naturalmente, il margine di interesse include anche gli interessi sugli strumenti finanziari detenuti nel portafoglio di negoziazione (i.e. titoli), oltre che gli interessi netti derivanti dai conti intrattenuti con altre banche, tuttavia nel modello di business retail queste componenti (portafoglio titoli e posizione sull’interbancario) sono comunque – in condizioni fisiologiche e di normale ciclo di tesoreria – variabili dipendenti dall’andamento delle masse intermediate con la clientela.
[8] Si sono analizzati i bilanci consolidati di gruppo chiusi al 31 dicembre 2020 per UNICREDIT, INTESA SANPAOLO, BANCO BPM, BPER e (in mancanza dei bilanci annuali non ancora pubblicati al momento in cui scriviamo) le relazioni finanziarie consolidate al 30 giugno 2020 di GRUPPO ICCREA e GRUPPO CASSA CENTRALE.
[9] Si veda in proposito l’indagine condotta da PWC, Tecnologie disruptive per le aziende finanziarie 2020, disponibile al seguente indirizzo https://www.pwc.com/it/it/industries/fintech/docs/technology2020.pdf
[10] Si tratta della Direttiva dei Sistemi di Pagamento (PSD2, Direttiva EU 2015/2366) che regolamenta i servizi di pagamento e i gestori dei servizi di pagamento all’interno dell’Unione europea.
[11] Si rinvia a KPMG, Regulation and supervision of FinTech, marzo 2019, disponibile all’indirizzo https://assets.kpmg/content/dam/kpmg/it/pdf/2019/04/regulation-and-supervision-of-fintech.pdf