di Fabio Camorani*
Nell’intervento pubblicato nel mese di luglio 2015, avevo scritto, ispirandomi a Darwin, che per la sopravvivenza di una azienda servono in sostanza 2 cose:
- Ability to change
- Ability to understand
Queste due componenti portano in pratica ad altri 2 aspetti: l’errore/fallimento ed il problem solving.
Concentriamoci un attimo sul secondo:
Dobbiamo sviluppare la nostra capacità di capire. “Se avessi un’ora per risolvere un problema, spenderei 55 minuti per pensare al problema e 5 minuti per pensare alla soluzione”. Questa famosa affermazione di Einstein è una delle mie preferite e l’ho frequentemente in mente. Non solo perché mi guida in quello che faccio, ma soprattutto perché non la vedo applicata. E mi colpisce proprio quello che (non) vedo. Noi tendiamo a fare l’esatto opposto: ci capita un problema e saltiamo alle conclusioni/soluzioni. Spesso addirittura lo facciamo dal sintomo!
Per anni mi è stato spiegato come arrivare rapidamente alla soluzione fosse la via giusta, quella migliore. Problema-soluzione, in fretta! Supponendo, pertanto, che ogni causa fosse nota a priori, sempre. Si creava quindi un team di “soluzionisti”, persone votate alla soluzione e poste quasi esclusivamente in una stanza chiusa. Ma quando il gioco si faceva duro, ecco comparire team di esperti che in settimane di lento lavoro producevano un perfetto piano di azione, il quale rimaneva in parte incompiuto o perfettamente inutile.
Strada facendo mi sono accorto che spesso io stesso saltavo alla soluzione dal sintomo, senza nemmeno aver definito il problema. E, puntualmente, il problema ritornava identico in un futuro nemmeno lontano. Se non capitava era, onestamente, per una serie fortunata di eventi.
Dobbiamo passare dalla cultura del “fixing” alla cultura della comprensione. Dobbiamo, cioè, fare un passo indietro, spendere tempo ed energie per comprendere bene il problema. Senza averlo definito correttamente (e quindi senza aver definito i suoi confini) non si può pensare di avere successo. Dobbiamo quindi essere abili Problem Solvers! Ed essere dei Problem Solvers va ben oltre la conoscenza delle tecniche relative! Non è di questa “teoria” di cui parlo, ma della cultura, del corretto approccio, di cambiare le abitudini “programmandone” di nuove.
Non basta: dobbiamo fare in modo che la capacità di capire l’abbiano molte persone, ai livelli dove accadono le cose, fino a quelli più bassi dell’organizzazione. In altre parole, ci serve un “esercito” di Problem Solvers. In questo modo avremo persone capaci di capire e di agire correttamente, proprio dove accadono le cose e potremo avanzare a piccoli, veloci e frequenti passi e con enorme inerzia (attività in parallelo).
Smettiamo dunque di inseguire i problemi, fermiamoci e cerchiamone la causa radice, implementiamo una soluzione definitiva e passiamo al problema successivo. Sforziamoci di farlo! Soprattutto perché se non lo facciamo noi, nessuno di quelli attorno a noi lo farà mai! Riparare ad uno sbaglio è più facile che cercarne la causa radice. Mettersi personalmente a cercare un pezzo in magazzino è più facile che analizzare la causa per la quale manca…
Essere Problem Solvers non significa produrre piani di azione, significa AGIRE. Significa FARE delle cose, dopo aver trovato la causa radice. Se trovata la causa noi producessimo un piano di azione che rimanda ad altri il fare, avremmo fallito.
Ma tutti questi discorsi portano alla seconda parte del tema, l’ability to change. E la capacità di agire porta inevitabilmente al concetto di “fallimento”, “errore”.
“Il successo consiste nel passare dal fallimento ad un altro senza perdere entusiasmo” (W. Churchill). Il fallimento è una parte essenziale dell’apprendimento. La capacità di adattamento è fatta di sbagli, perché è fatta di tentativi: buoni, così così e sbagliati. In fondo si dice che sbagliare sia umano. Ma allora se fa parte del nostro bagaglio perché non lo sfruttiamo?
I bambini più piccoli, prima di usare la coscienza in maniera usuale, usano l’errore per imparare. Basti pensare a quando provano a gattonare, poi a stare in piedi ed infine a camminare. Fanno un tentativo ed imparano dal risultato ottenuto: “alcune volte vinci, tutte le altre volte impari” (proverbio giapponese). E questo mi dice che allora il vero comportamento naturale non è quello di negare, ma questo! Provare, sbagliare, imparare! Riprovare con qualche modifica ed osservare il risultato. In fondo “follia è fare sempre la stessa cosa e aspettarsi risultati diversi” (A. Einstein). O non fare nulla sperando che la volta successiva il risultato sia diverso…
Noi pensiamo di sapere e quindi non ci chiediamo il perché delle cose, neghiamo a noi stessi l’errore: non impariamo più molto bene.
Ricordo che tra i primi insegnamenti manageriali c’era che un manager non sbaglia mai. Questo comportamento da super umano era un requisito/obbligo. E quindi comprendo meglio perché tutti tendiamo a negare gli errori, specialmente se sono evidenti.
L’aspetto grave, in realtà, non è il negare agli altri, ma farlo a noi stessi! Certo, riconoscere un errore è difficilissimo, sia a noi che agli altri. Ma se cominciamo a farlo con noi stessi, possiamo dire di essere sulla strada giusta. L’ammettere un errore davanti al proprio team oppure ai colleghi non è un atto di debolezza, ma di forza! Negare è molto più facile che ammettere. Come riparare da uno sbaglio è più facile che cercarne la causa radice.
Non vorrei essere frainteso: non bisogna sbagliare apposta! E non bisogna farlo in modo grave. Gli errori capitano, quindi premesso di cercare sempre di non sbagliare (impegnandoci per fare “la cosa giusta”), bisogna fare tesoro dell’errore, se ci dovesse essere.
Ma soprattutto bisogna procedere per piccoli passi. Se noi ci troviamo in zona ignota, non dobbiamo procedere alla cieca, ma pianificare un obiettivo chiaro e procedere per tentativi e piccoli passi. Se il passo risultasse sbagliato, il danno sarebbe nullo o minimo e quindi potremo tornare indietro e scegliere un’altra strada. Questi “quick PDCA” sono vitali per procedere velocemente ed efficacemente. In altre parole, non PIANIFICARE ma FARE, testando e verificando sul campo, senza paura dell’errore. E ricordandoci che se davanti troviamo un bivio, prendiamolo!
Su questo ci viene in evidente aiuto come il nostro cervello funziona: si chiama Neuroplasticità. È la capacità intrinseca del nostro cervello di adattarsi agli stimoli esterni, creando nuovi percorsi se molto usati e cancellando quelli poco usati. Possiamo riprogrammare le nostre abitudini! Una notizia stupenda!
Se non vogliamo che la fortuna prevalga sul talento (Kahneman: successo = talento + fortuna, grande successo = poco più talento + grande fortuna), dobbiamo usare di più e meglio la nostre “ability to change” e “ability to understand”.
*Lean Coordinator Electrolux Forlì, testimone Master CUOA in Lean Management