Andrea Furlan *
Nella ricca letteratura sull’applicazione delle tecniche del lean management ci sono alcune evidenze che incuriosiscono. Una survey del 2007 fatta su imprese industriali americane mostra che, mentre il 70% delle imprese adotta le tecniche lean, circa il 74% di queste si dichiara insoddisfatto dei relativi risultati (Pay, R., 2008. Everybody’s jumping on the lean bandwagon, but many are being taken for a ride. Industry Week; March 05, 2008). Analogamente, una ricerca precedente mostra che solo l’11% delle imprese apprezza i progressi delle loro attività di kaizen e miglioramento continuo (Mendelbaum, G., Keep your eye on the ball. APICS Magazine, January 2006).
Come evidenziato da diversi studi, una delle cause del mismatch tra aspettative e risultati dei programmi di miglioramento è l’eccessivo focus sulla dimensione “tecnica” del lean. Per i “fautori” del lean l’obiettivo molto spesso è diventare il “più lean possibile” cercando di massimizzare indicatori come il numero di kaizen weeks, la riduzione dei tempi di set up, il numero di codici gestiti in kanban, il livellamento del programma di produzione, il tasso di turnover del magazzino, e così via. Purtroppo questo approccio “tecnico” troppo spesso perde di vista la prima, e più importante, fonte di spreco: avere una strategia sbagliata o, peggio ancora, non avere una strategia!
L’implementazione di tecniche operative a supporto di una strategia sbagliata non può portare a un vantaggio competitivo sostenibile nel tempo e quindi non può produrre i risultati attesi. Se non sono amalgamate in una corretta strategia e nell’organizzazione dell’impresa, le singole tecniche sono infatti facilmente imitabili dai concorrenti e quindi esposte a un inevitabile processo di omologazione competitiva.
In un recente volume, Michel Porter (professore di Harvard e guru mondiale sul team della strategia di impresa) afferma che il peggiore errore, e l’errore più comune per un’impresa, è non avere una strategia. Rendere più efficienti i processi interni, attraverso l’implementazione dell’approccio snello, non è strategia ma rientra nella tattica di breve periodo. Un’impresa ha una strategia quando ha una value proposition unica e distintiva rispetto ai concorrenti e una catena del valore vestita attorno a questa value proposition: usando le sue parole “strategy is about being different”.
Il primo passo per definire una strategia è chiedersi cosa il cliente vuole e l’impresa non gli sta offrendo. Prezzi più bassi? Maggiore qualità? Temi di consegna più veloci? Maggiore flessibilità nelle consegne? Una innovazione di prodotto più spinta o veloce? Più servizio? Una non risposta, o una risposta scorretta a queste domande, è la prima fonte di spreco.
La conseguenza è che le tecniche lean adottate acriticamente, ossia senza un legame analitico con le risposte a queste domande, vengono snaturate dalla stessa filosofia lean che si fonda sulla caccia agli sprechi. La riduzione dei tempi di set-up attraverso l’applicazione delle tecniche SMED è uno spreco se il cliente non chiede maggiore flessibilità. La riduzione del magazzino di prodotti finiti in settori ad elevata marginalità è uno spreco se avviene a scapito del livello di servizio al cliente. Un livellamento eccessivo del programma di produzione è uno spreco se il cliente non richiede consegne così frequenti.
In tempi di crisi, l’allineamento tra strategia e azioni operative diventa ancora più importante. Crisi, soprattutto quella che stiamo vivendo in questi anni, significa cambiamento. Cambiamento nei gusti dei consumatori, nella quantità e nella qualità di cose acquistate, nelle tecnologie di prodotto e di processo, nella geografia dei mercati e dei sistemi produttivi, nei modi e negli strumenti di comunicazione. Sviluppare o adottare tecniche o competenze che non sono coerenti con questi cambiamenti riduce quello che in letteratura viene chiamato evolutionary fitness, ossia la capacità dell’impresa di essere in “empatia” con il proprio ambiente di riferimento. La cronaca economica corrente fa emergere molte situazioni di questo tipo ossia di imprese che, nonostante cambiamenti epocali e di lungo periodo, non hanno saputo, o voluto, cambiare la propria strategia e hanno continuato a perseguire “vecchie” ricette ritenute di successo in quanto efficaci in tempi passati. La capacità di cambiamento della strategia e del modello di business diventa quindi la competenza più importante per la sopravvivenza e la prosperità dell’impresa.
* Docente CUOA, Professore Associato di management, Facoltà di Economia e Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali, Università degli Studi di Padova