Sul tema della comunicazione della crisi aziendale l’articolo di Maurizio Castro, Direttore scientifico Executive Master in Turnaround & Change Management
Si chiamavano “brutte malattie”: e venivano taciute, occultate, negate persino, confinate e compresse in una zona scura di non-comunicazione. Poi, sia per effetto dei progressi della scienza medica che han reso sempre più elevata la probabilità di guarigione di chi ne fosse affetto, sia per effetto del vistoso cambiamento occorso ai costumi sociali che han abbandonato ogni pudore, discrezione e reticenza nel nome della trasparenza e forse dell’esibizione, ciascuno ha preso a narrarla, la propria condizione di malato: non solo per condividerla superando la solitudine della sofferenza, ma anche per trasformare quella narrazione della propria fragilità in un elemento terapeutico.
Similmente accade per le crisi aziendali: un tempo censurate, ammesse con fatica e con fastidio, sottratte tenacemente al confronto pubblico, oggi sono sempre più oggetto di espliciti processi di comunicazione, di percorsi mediatici affrontati senza troppe remore, di confessioni tanto schiette e scabre da sfiorare il sospetto d’un pervertito compiacimento da “antropologia televisiva”.
Il fatto che le crisi aziendali vengano comunicate molto, peraltro, non significa affatto che vengano comunicate bene. Anzi, si sostiene, da parte di molti commentatori avveduti, che tanto più si diffondono manuali e comitati di crisi, quanto più, nel concreto accadere e dispiegarsi delle crisi “reali”, si censiscono autentici becanoti – per dirla con veneta soavità – di comunicazione. E, tra l’altro, proprio in virtù dell’acquisita centralità della comunicazione nel mondo dell’impresa contemporanea, un errore nella sua strategia o nella sua applicazione può, sbriciolando asset aziendali immateriali ma cruciali come la reputazione e l’affidabilità, cagionare esiti anche economicamente laceranti: esempi recenti e vistosi afferenti a prestigiose società di rango internazionale sdrucciolate in errori micidiali sono troppo noti per meritare un’impietosa nominatività.
Possiamo senz’altro concentrare tutte le regole cui ispirare sia la comunicazione della crisi aziendale, sia l’utilizzo della comunicazione per rimediare alla crisi e avviare il turnaround (che a me piace chiamare, con linguaggio militare, il capovolgimento di fronte) in un’espressione soltanto: autenticità.
A sua volta, essa può essere articolata e organizzata in tre elementi essenziali:
1) l’approccio aletico
2) la coerenza assiologica
3) l’intraneità comunitaria.
Scorriamo rapidamente i contenuti fondamentali di ciascuna declinazione dell’autenticità (Eigentlichkeit).
L’approccio aletico
Nella comunicazione di una condizione di crisi aziendale, riferita all’illustrazione delle ragioni che l’hanno determinata o facilitata o aggravata ovvero riferita all’illustrazione delle strategie, dei programmi e delle azioni adottati per affrancarsene, è indispensabile, ancor più che in qualsivoglia altra stagione aziendale, un atteggiamento di leale e coraggioso orientamento alla verità. Una crisi aziendale segna sempre una cesura ed essa viene emotivamente vissuta, all’interno come all’esterno del perimetro organizzativo dell’impresa, come una ferita da suturare e una “colpa” da riscattare: e dunque alla proprietà e al management – siano essi gli “autori” della cesura, ovvero chi li abbia sostituiti per saldarla – non si perdonerebbero atteggiamenti manipolatori o mistificatori. La “verità dei fatti” è però assai meno semplice di quanto non si pensi: anzi, è l’esito di un processo complesso, e persino sofisticato, di analisi e di valutazione di situazioni economiche, finanziarie, gestionali, di prodotto, di mercato, ecc., che costituisce la “piattaforma” stessa del risanamento, il suo presupposto fondativo. Non esiste infatti buona comunicazione se non sia organizzata intorno a una costruzione logico-narrativa adeguata all’accaduto e alle sue prospettive di evoluzione. Un altro punto rilevante è dato dalla necessaria “unitarietà” di quanto viene comunicato ai diversi pubblici di riferimento: possono esservi intonazioni diverse in relazione alla diversa natura degli interlocutori (dipendenti, sindacati, clienti, fornitori, banche, istituzioni, media), ma il “testo” dev’essere integratamente omogeneo. La prassi, anni fa tranquillamente applicata, di racconti finanche “alternativi” in termini di contenuti, modellati in modo opportunistico e “seduttivo” per attrarre il consenso dell’uno o dell’altro referente, sarebbe oggi, nel tempo della trasparenza informativa indotta dall’impossibilità di controllare le fonti e gli accessi, oltre che unfair in sé, esiziale, giacché lo smascheramento sarebbe garantito. Né si dimentichi che, sul piano normativo, condotte che prima degli Anni Duemila sarebbero state soltanto censurabili sul piano etico per la loro “renitenza alla verità”, oggi sono divenute a ogni effetto illecite e come tali sanzionate: l’esigenza della correttezza, e della stessa tempestività, dell’informazione anche nei confronti degli stakeholder è recepita nell’architettura dei principali apparati legislativi ispirati dalla lotta contro la corruzione e per la trasparenza (e.g.: D. Lgs. 231/2001, D. Lgs. 254/2016, l. 179/2017, D. Lgs. 19/2019, ecc.).
La coerenza assiologica
La comunicazione della crisi aziendale, oltre che essere autentica in quanto “veritiera” e “leale”, dev’essere anche, nei suoi contenuti e nei suoi modi (forma, stile, canali, tempi, ecc.), autentica in quanto coerente con l’identità culturale dell’azienda e con il suo sistema di valori. È ormai consolidato l’approdo a una concezione “etologica” dei comportamenti d’impresa: la comunicazione relativa a quei comportamenti, soprattutto a quelli tenuti o da tenere nella situazione più intensa e drammatica del ciclo di vita aziendale, quando la natura più profonda dell’organizzazione e del “patto valoriale” che la connota e su cui si fondano la sua stessa esistenza e la “legittimazione” sociale del suo funzionamento si esprime e misura senza infingimenti, in tanto è efficace in quanto riassuma “aoristicamente” in sé l’intera storia aziendale, dei suoi prodotti, del suo marchio, delle sue tecnologie, dei suoi fondatori, di tutte le persone che la abitano e la animano con i loro saperi collettivi e con le loro esperienze corali, del territorio in cui è radicata, dei mercati che presidia nel mondo, dell’orizzonte antropologico in cui colloca il suo “senso” di intrapresa, delle “virtù” che incarna e dei limiti che riconosce nel suo materiamento quotidiano. Insomma, la comunicazione dev’essere identitariamente fedele, distintiva, propulsiva.
L’intraneità comunitaria
Con molta malizia, è stata da taluno osservato come molti roboanti “codici etici”, molte conclamate policy di “responsabilità sociale”, siano naufragate goffamente e rovinosamente di fronte all’impatto con la prima vera tempesta, e talora persino di fronte a quello con la prima vera turbolenza, rappresentate da una crisi “in mare aperto” (e non più al simulatore); e come condotte che si dichiaravano non senza albagia generose si siano rivelate meschine, e l’onestà sia tralignata in avidità, la compliance in frode. L’osservazione non è infondata, e se ne potrebbe almeno ricavare un invito a una gestione prudente della narrazione di sé e dei propri meriti: in effetti, molte crisi reputazionali anche recenti sono state enfiate da un precedente eccesso di declamazione retorica e dalla constatazione dello iato irritante tra il livello empireo dell’auto-rappresentazione e quello, se non infernale, certo angiportuale della poi rinvenuta realtà. In verità, è essenziale, nella comunicazione della crisi, che essa esprima la partecipazione, non solo morale, ma anche sentimentale, ai destini della comunità sociale e territoriale i cui destini sono incisi dall’agire dell’impresa. La partecipazione, ça va sans dire,va ben oltre la mera correttezza e ben oltre l’educatamente manifestata consapevolezza del proprio ruolo socio-economico; e di certo non si esaurisce nella corrispondenza all’invito be compassionate! Essa comporta, per esempio, e soprattutto nelle fasi iniziali di una crisi, quando ancora non sono state accertate – poniamo – le effettive responsabilità di un grave incidente collegato alle produzioni commercializzate o ai servizi erogati dall’azienda, la pubblica assunzione della responsabilità morale di quanto sia luttuosamente accaduto, a prescindere dalla responsabilità giuridica e, di conseguenza, la pubblica assunzione dell’impegno di sostenere con ogni mezzo a disposizione e su ogni piano (clinico, psicologico, finanziario, materiale) le persone, le famiglie, le comunità colpite, al di là di ogni obbligo risarcitorio e per tutto il tempo necessario alla riconduzione a normalità degli esiti diretti e indiretti della vicenda. Così come essa comporta, per esempio, non già una generica disponibilità alla leale collaborazione con l’autorità giudiziaria (ci mancherebbe altro!), ma l’attivazione di commissioni d’inchiesta “esterne” guidate da personalità indipendenti oltre all’effettuazione di indagini e inchieste “interne” con la diretta partecipazione di rappresentanti dei lavoratori o dei consumatori o degli azionisti. Così come essa comporta, per esempio, in casi di atti illeciti posti in essere da propri amministratori o dirigenti che abbiano pregiudicato la credibilità aziendale presso i mercati finanziari o presso la clientela commerciale, sia la disclosure dei procedimenti disciplinari avviati e dei loro esiti, trasformando la trasparenza in vettore di “redenzione”, sia la illustrazione tempestiva di tutte le misure organizzative adottate per evitare il ripetersi di utilizzi distorsivi dei ruoli apicali e per impedire che nuovi Mordred contaminino e sabotino la rettitudine e l’efficacia della governance societaria.
Autore: Maurizio Castro, Direttore scientifico Executive Master in Turnaround & Change Management
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